Maduro sworn in for second term as President amid diplomatic tensions and economic crisis

L’insediamento di Maduro per il secondo mandato fra tensioni diplomatiche e crisi economica

di Marzia Rosti

Il 10 gennaio scorso Maduro ha assunto il suo secondo mandato presidenziale in una cerimonia ufficiale alla quale hanno assistito i rappresentanti dei pochi governi stranieri che può considerare ancora amici. Oltre a Cina, Russia e Turchia, a livello regionale infatti Maduro può contare solo sul sostegno del presidente boliviano, Evo Morales, del cubano, Miguel Díaz-Canel, e del nicaraguense, Daniel Ortega, cui si aggiunge il messicano Andrés Manuel López Obrador che, con una posizione ancora poco definita, insiste per la ricerca di una soluzione condivisa della crisi diplomatica ormai evidente. Non erano presenti invece i rappresentanti dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e del Grupo de Lima1, in quanto le elezioni del 20 maggio 2018 che lo hanno consacrato vincitore sono state dichiarate illegittime dalla maggior parte della comunità internazionale, perché svoltesi senza la partecipazione dell’opposizione e di osservatori indipendenti2.

Mentre alla cerimonia Maduro affermava che “El mundo es más grande que el imperio estadounidense y sus gobiernos satélites, hay un mundo más allá, aquí estamos presentes. Ya no es el mundo hegemónico y unipolar y a ese mundo, Venezuela le abre los brazos de respeto, cooperación y hermandad” (BBS News Mundo, 11 gennaio 2019), l’Organizazione degli Stati Americani (OSA), con 19 voti a favore, 6 contrari e 8 astensioni, decideva con una Risoluzione di “no reconocer la legitimidad del período del régimen de Nicolás Maduro a partir del 10 de enero de 2019” (Consejo Permanente, 10 gennaio 2019) e il Segretario generale Luis Almagro dichiarava che “El pueblo de Venezuela no está solo, seguimos trabajando para recuperar la democracia, los derechos y libertades de todos” (NoticieroDigital.com, 10 gennaio 2019).

Si rammenta che l’Assemblea Generale dell’OSA con una Risoluzione del giugno 2018 aveva già dichiarato illegittima l’elezione di Maduro – e quindi avviato la procedura per la sospensione dello Stato dall’organizzazione – e che il Venezuela all’epoca aveva replicato ricordando che, già nell’aprile 2017, Caracas aveva presentato la richiesta di uscire dall’organizzazione, che si sarebbe perfezionata nel 2019.

Sulla stessa linea dell’OSA si sono collocati i paesi membri del Grupo de Lima che, oltre a non riconoscere il nuovo mandato di Maduro, hanno annunciato che saranno rivisti alcuni aspetti delle relazioni diplomatiche ed economiche con Caracas: infatti, sarà proibito l’ingresso nei rispettivi territori dei rappresentanti diplomatici venezuelani e sarà redatto un elenco di aziende e di persone “con las que entidades financieras y bancarias de sus países no deberán operar o deberán tener una especial debida diligencia”, oltre alla sospensione della cooperazione militare. Il primo paese a rompere le relazioni diplomatiche è stato il Paraguay, il cui presidente Mario Abdo Benítez ha disposto la chiusura dell’ambasciata a Caracas e l’espulsione della rappresentanza venezuelana.

Da sottolineare, infine, che Maduro ha prestato giuramento davanti al Tribunal Supremo de Justicia, teoricamente un organo indipendente ma che sostiene da tempo il Presidente e non, come prevede la Costituzione – dinanzi all’Asamblea Nacional, nella quale dal 2015 prevale l’opposizione e che, per tal motivo, è stata privata delle proprie funzioni dall’Asamblea Nacional Constituyente, eletta il 30 luglio 2017 e insediatasi il 4 agosto successivo.

Anche il neo presidente dell’Asamblea Nacional Juan Guaidó (fondatore del partito d’opposizione Voluntad popular-VP, il cui leader è Leopoldo López ora agli arresti domiciliari) si è allineato alla comunità internazionale: non ha riconosciuto il secondo mandato di Maduro, definendolo “usurpador”, ha esortato le Forze Armate a rispettare la Costituzione e a non riconoscere la legittimità di un governo che non è espressione del voto dei venezuelani; si è poi autoproclamato presidente ad interim fino a nuove elezioni, convocando infine una grande manifestazione per il prossimo 23 gennaio.

Le Forze Armate hanno dichiarato però piena fedeltà al Presidente Maduro e Guaidó è stato ‘fermato’ per qualche ora da alcuni agenti del Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional (SEBIN), dopo aver rilasciato tali dichiarazioni.

La giornata si è chiusa con la reazione di Maduro che ha dato un ultimatum di quarantotto ore al Grupo de Lima – definito una fantoccio degli Stati Uniti – perché riveda la propria posizione “injerencista”, minacciando l’adozione di “las medidas más crudas y enérgicas en diplomacia y en defensa de un Gobierno” (El País, 11 gennaio 2019).

La crisi diplomatica si aggiunge alla nota crisi economica che il Venezuela sta vivendo ormai da qualche anno (scarsità di generi alimentari e di medicine e un’inflazione elevata che il Fondo Monetario Internacional-FMI prevede possa raggiungere nel 2019 il 10.000.000%) e che ha spinto dal 2015 almeno 3 milioni di venezuelani a migrare in Colombia, Ecuador e Perù, dando origine a un fenomeno di notevoli dimensioni che gli Stati coinvolti negli ultimi mesi stanno cercando di fronteggiare.

Bibliografia:

1 Costituitosi l’8 agosto 2017 a Lima per trovare una soluzione alla crisi venezuelana, vi aderiscono Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panamá, Paraguay, Perú, Guyana e Santa Lucía ed è sostenuto da Barbados, Stati Uniti, Granada e Jamaica.

2 L’opposizione invitò i venezuelani a boicottare le elezioni e in effetti l’astensionismo raggiunse il 46%; Nicolás Maduro (Partido Socialista Unido de Venezuela-PSUV) vinse con il 68% dei consensi contro il 21,2% raccolto da Henri Falcón (Avanzada Progresista) e il 10,82% del candidato indipendente Javier Bertucci.

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