IL RAPPORTO DEL CONSIGLIO D’EUROPA SULL’UNGHERIA: LA LIBERTA’ DEI MEDIA

di Cristiano Preiner

Il 16 dicembre 2014, a Strasburgo, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, ha reso noto un rapporto sull’Ungheria in cui sono state raccolte documentazioni e fatti presi sul campo in una sua recente visita nel paese tra il 1 e il 4 luglio 2014. Durante la visita il Commissario ha intrattenuto colloqui con il Ministro della giustizia László Trócsányi, con l’allora vice – ed oggi attuale – Ministro degli esteri Péter Szijjártó e con alte personalità del Ministero dell’inclusione sociale e risorse umane e del Ministero dell’interno. Incontri ufficiali si sono avuti anche con il presidente della delegazione parlamentare ungherese al Consiglio d’Europa, con il vice-procuratore capo, con l’ombudsman e con i presidenti delle autorità nazionali per la protezione dei dati e la libertà dell’informazione e delle pari opportunità. Muiznieks ha sentito anche gli esponenti di diverse organizzazioni non governative.

Il rapporto tratta tre argomenti: libertà dei media, lotta all’intolleranza e alla discriminazione, diritti dei migranti ivi compresi i richiedenti asilo. Il lavoro del Commissario, che si sviluppa in quarantaquattro pagine, è volto a ricostruire in maniera schematica e sintetica l’approccio normativo del governo ungherese rispetto alle tematiche esposte, le modifiche apportate in seguito alla pressione di diversi organismi internazionali (Unione europea, Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa) e la descrizione di campi e settori che ancora necessitano di correzioni. Analizzeremo con tre articoli dedicati le tre questioni oggetto dell’analisi del rapporto cominciando con la parte riservata alla libertà dei media.

La sezione del rapporto relativa alla libertà dei media è suddivisa in base agli interventi del legislatore ungherese attraverso norme che la influenzano più o meno direttamente. Quindi si distinguono chiaramente il cosiddetto “pacchetto media”, le norme sulla pubblicità e quelle del nuovo codice penale in materia di diffamazione.

LEGISLAZIONE SUI MEDIA E DIRITTO ALLA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE:

La disciplina sul contenuto dei media

Il “pacchetto media” del governo è racchiuso in due leggi. La legge CIV del 2010 sulla libertà di stampa e sulle norme fondamentali in materia di contenuti dei media e la legge CLXXXV del 2010 su media e mezzi di comunicazione di massa. L’ articolo 13 della legge CIV prescrive nella sua versione originale l’obbligo per gli addetti ai lavori di garantire una informazione “diversificata, completa, fattuale, aggiornata, oggettiva”. L’esplicita indicazione di questi requisiti passa per essere una ridondanza, una forzatura, un’imposizione di criteri comunque soggettivi per cui anche il predecessore del Commissario Muiznieks aveva già richiesto in un suo rapporto nel 2011 l’abrogazione dell’articolo. In seguito anche al dialogo intrapreso con la Commissione Europea, la legge è stata più volte ritoccata e le citate prescrizioni rimosse definitivamente dal testo con la legge XXXIII del 2013.

Controverso è anche l’articolo 12 della legge CLXXXV, in particolare nel terzo comma che impone a chi annuncia le notizie di attenersi strettamente alla descrizione delle stesse senza aggiungere nessun tipo di opinione politica o analisi. Il comma 4 poi vincola le trasmissioni  a distinguere necessariamente l’opinione dalla notizia. In virtù di queste disposizioni, la Corte Suprema ungherese ha definito in una sentenza del 3 giugno 2014 l’espressione “partito di estrema destra” – attribuita dall’emittente ATV al partito Jobbik  – “un’opinione capace di condizionare e non una semplice comunicazione concernente un fatto”. Il Commissario ritiene pertanto che le prescrizioni dell’articolo 12 siano di difficile applicabilità inducendo i media ad astenersi dall’occuparsi di notizie politiche.

L’attenzione di Muiznieks si sofferma anche su di una sentenza della Corte Costituzionale, la 19/2014. (V. 30.)  del  27 maggio 2014, in cui si è stabilito che in caso di commenti denigratori espressi su pagine internet  tali da violare la legge sui media, la responsabilità ricade sempre e comunque sui proprietari dei siti, sia che non ne siano conoscenza sia nel caso in cui rimuovano immediatamente i commenti su richiesta della parte offesa. Nel rapporto si condivide la stessa posizione dell’Unione ungherese delle Libertà Civili. Secondo quest’ultima, blog e portali potrebbero decidere di limitare o vietare del tutto la possibilità di rendere pubblici i commenti per paura di sanzioni con conseguente rischio per la libertà di espressione. Il Commissario, riferendosi ad una sua recente relazione  sullo stato di diritto in Internet e nel più ampio mondo digitale, paventa la possibilità che le compagnie private per eccesso di zelo limitino il diritto al completo accesso ai contenuti multimediali.

L’imposizione di sanzioni ai media

Un aspetto problematico è costituito anche dal sistema delle sanzioni previsto dal “pacchetto media” che investe le autorità di controllo sui media del potere di monitorare, sia d’ufficio che su denuncia,  il rispetto di quanto previsto dalla legislazione sulla comunicazione. Il controllo si estende a tutti i casi di violazione della regolamentazione dei media, compresi gli obblighi di contenuto, il rispetto dei contratti pubblici e la tutela dei minori. Il sistema delle sanzioni prevede un progressivo aggravio che va dai semplici richiami e dalle multe alla sospensione dell’emittente erogatrice del servizio, alla cancellazione dal registro dei media o alla cessazione del contratto pubblico. Le critiche mosse dal rapporto riguardano la mancanza di proporzionalità delle misure adottate, con multe troppo alte che possono toccare anche i 200 milioni di fiorini (circa 650 mila euro), oltre al fatto che è contemplata persino la rimozione dal registro dei media. Già nel 2012 il Consiglio d’Europa si era espresso giudicando come poco chiare e difficilmente prevedibili queste disposizioni di legge.

La protezione delle fonti giornalistiche

Muiznieks riconosce gli sforzi intrapresi dal governo per modificare l’articolo 6 della legge CIV sulla libertà di stampa già molto discusso e criticato dal suo predecessore. In origine l’articolo ostacolava l’applicazione del principio della protezione delle fonti giornalistiche, in particolare nella parte in cui si obbligavano i giornalisti a rivelarle nei procedimenti giudiziari senza elencare chiaramente quali fossero i casi di esclusione. La Corte Costituzionale, con la sentenza 165/2011. (XII. 20.) del 19 dicembre 2011 che ha annullato parzialmente l’articolo per incostituzionalità, ha anticipato e sollecitato l’intervento del legislatore che con la legge LXVI del 2012 ha limitato l’obbligo di rivelazione a specifici casi e solo su ordine del tribunale. Quello che chiede ora il Commissario alle corti nazionali è la conforme interpretazione e applicazione della norma del testo novellato avendo riguardo agli standard del Consiglio d’Europa. In particolare si richiama l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel caso Goodwin v. United Kingdom ha ribadito che la libertà di stampa è tutelata quando nell’obbligo di rilevare la fonte c’è una ragionevole proporzionalità tra l’obiettivo legittimo della misura e il modo in cui tale obiettivo viene perseguito. Il Commissario sottolinea inoltre che la salvaguardia del principio appena esposto deve estendersi anche ai giornalisti freelance.

REGISTRAZIONE OBBLIGATORIA

Il pacchetto media ha introdotto un’altra regola controversa: l’obbligo di registrazione preventiva per media, carta stampata, media on-demand necessaria ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione ad erogare il servizio. La legge XIX del 2011 ha mitigato gli effetti della registrazione obbligatoria posponendola e prevedendola entro 60 giorni dall’erogazione del servizio. Resta comunque la contrarietà espressa dal Commissario all’obbligatorietà del requisito della registrazione che, in linea con il punto 8.15 della risoluzione 1636 (2008) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, non può essere imposta dalle autorità statali per finalità diverse da quelle più strettamente fiscali o a scopo di lucro ovvero quelle di una classica licenza.

I problemi relativi all’indipendenza degli organi di controllo sui media

L’organismo predisposto dalla legge CLXXXV del 2010 per il controllo del settore dei media e delle telecomunicazioni è “L’Autorità nazionale dei media e delle comunicazioni” che è suddiviso in tre organismi: Presidente, Ufficio dell’Autorità e Consiglio dei media. Il Presidente dell’Autorità viene nominato dal Primo Ministro. Il Consiglio dei media è un organismo autonomo all’interno dell’Autorità composto da un presidente e da quattro membri eletti dal Parlamento. Alla presidenza è candidato di diritto lo stesso Presidente dell’Autorità. Il Commissario conferma nel rapporto l’analisi del 2011 del suo predecessore puntualizzando che l’indipendenza degli organi di controllo dei media è garantita formalmente dalla legge ma non lo è nella sostanza. Procedura di nomina e composizione degli stessi producono una eccessiva vicinanza ai partiti di governo. Anche su sollecitazione del Consiglio d’Europa  è stata approvata la legge XXXIII del 2013 che prevede la nomina del Presidente dell’Autorità da parte del Presidente della Repubblica su proposta del Primo Ministro. Quest’ultimo deve obbligatoriamente consultare tutte le associazioni e le organizzazioni del settore come ad esempio il Consiglio nazionale di comunicazione e informatica e i gruppi di rappresentanza nazionale dei giornalisti, ai quali è fatta espressa richiesta di esprimere ciascuno una propria preferenza. In più è stata contestualmente introdotto il divieto di rieleggibilità alle cariche. Restano ancora due questioni aperte espresse dal Commissario: la necessità di separare chiaramente le cariche di Presidente dell’Autorità e del Consiglio dei media e l’aumento degli sforzi volti a garantire una indipendenza ed imparzialità de facto degli organi di controllo la cui composizione risulta essere ancora troppo filogovernativa.

MINACCE AL PLURALISMO DEI MEDIA:

Il mercato pubblicitario

Il rapporto del Commissario Muiznieks elenca una serie di dati da cui si deduce che il Governo, che è il principale inserzionista pubblicitario nel paese, ha ritirato una larga parte delle proprie inserzioni pubblicitarie dai media indipendenti fin dal 2010. Le aziende private hanno fatto lo stesso per non perdere contratti col Governo.

Sulla base di studi aventi per oggetto la situazione ungherese redatti da Human Rights Watch e WAN-IFRA (Associazione mondiale per la stampa e l’editoria), si registra che soggetti considerati più “vicini” ai partiti di opposizione vedono spesso negata tanto la possibilità di produrre informazione pubblicitaria su canali “di Stato” quanto l’accesso a fonti di sostegno economico. Sono evidenti dunque gli effetti sulle possibilità di sopravvivenza degli organi di stampa che vedono sensibilmente ridotti i propri profitti pubblicitari con ricadute anche sul corretto funzionamento del mercato commerciale dei media.

La tassa sulla pubblicità

Con la legge XXII dell’ 11 giugno 2014 il Parlamento ha introdotto la tassa sulla pubblicità fissando delle aliquote crescenti proporzionalmente ai profitti percepiti fino ad un massimo del 40% degli introiti eccedenti i 2 miliardi di fiorini (65 milioni di euro).  La misura, oltre a generare una clamorosa protesta di siti internet, canali televisivi ed emittenti radiofoniche – auto-oscuratesi per l’occasione –  ha suscitato reazioni anche in seno all’OSCE e all’Unione europea che ne hanno chiesto modifica o ritiro. Dubbi sono stati sollevati infatti sull’assenza del carattere di generalità della norma che sembrerebbe mirata a colpire RTL Klub , network televisivo privato decisamente non filogovernativo, l’unico realmente in grado di realizzare guadagni superiori ai due miliardi. Il Commissario manifesta inoltre preoccupazione per la proposta del governo  – subito ritirata a fine 2014 – di un tassa sull’utilizzo di internet. Il Premier ha rimandato tutto al nuovo anno ipotizzando anche una consultazione popolare.

La propaganda politica

Un’altra questione aperta è quella della propaganda politica. Un primo intervento legislativo il 26 novembre 2012  ne disponeva la sola diffusione sulle reti pubbliche ma la Corte Costituzionale, su richiesta di giudizio preventivo da parte del Presidente della Repubblica, ne ha dichiarato l’incostituzionalità (in particolare l’articolo 151 del progetto di legge T/8405 sulla “Procedura elettorale”). La norma è stata reintrodotta tuttavia nella Legge Fondamentale attraverso il cosiddetto quarto emendamento l’11 marzo 2013. Sulla spinta di critiche anche internazionali, tra cui un rapporto della Commissione di Venezia, una successiva revisione – la quinta – alla nuova Costituzione estende la possibilità di trasmettere messaggi pubblicitari politici anche su reti private senza però alcun tipo di compenso economico. Le preoccupazioni del Commissario sono le stesse della missione OSCE inviata in Ungheria ad aprile dello scorso anno a monitorare le elezioni politiche. Viene sollecitata una rettifica alla disciplina sulla pubblicità politica poiché la gratuità della diffusione ne scoraggia la messa in onda da parte dei canali commerciali alterando in questo modo eguaglianza di opportunità e libertà di espressione. Considerando poi la inevitabile sovraesposizione mediatica del Governo non controbilanciata ad opera dell’opposizione politica c’è il rischio, riporta Muiznieks, di compromettere il pluralismo dell’informazione.

La depenalizzazione della diffamazione

Il rapporto presentato a Strasburgo definisce una minaccia alla libertà di espressione, così come enunciata nell’articolo 10 della CEDU, “l’inasprimento da parte dell’ordinamento ungherese delle pene per i reati di calunnia e diffamazione”. Il nuovo Codice penale – adottato nel 2012 ed in vigore dal 1 luglio 2013 – dispone all’articolo 226 (sulla calunnia) “il divieto di pubblicare contenuti ingiuriosi per la reputazione di un’altra persona” e all’articolo 227 (sulla diffamazione) “il divieto dell’utilizzo di espressioni tali da generare un danno alla reputazione di una persona relativamente alla sua attività professionale e pubblica”. Le pene prevedono multe comprese tra 100 mila e i 200 mila fiorini (325-650 euro) e fino ai due anni di reclusione. Un’ulteriore irrigidimento c’è stato nel novembre 2013 con un emendamento al Codice penale che ha esteso il reato di diffamazione anche alla “preparazione e distribuzione di video o tracce audio potenzialmente diffamatori” con reclusione fino a tre anni nel caso di diffusione ad un pubblico di vaste dimensioni. Per quanto non si registrino ad oggi casi di detenzione, il Commissario denota in ogni caso una sproporzione nel sistema sanzionatorio. L’auspicio è quello di una depenalizzazione del reato di diffamazione in linea con i principi europei insieme ad una conversione delle pene vigenti in sanzioni di natura amministrativa. Mantenere infatti un simile regime danneggerebbe oltremodo il giornalismo investigativo e potrebbe costituire un freno all’espressione di punti vista più critici (e satirici).

Fine Prima Parte

Il rapporto è consultabile al link

https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?Ref=CommDH(2014)21&Language=lanEnglish

 

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