L’Europa centro-orientale e i migranti: le ragioni dell’ostilità
di Angela Di Gregorio
I paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica continuano a dimostrare un atteggiamento di chiusura nei confronti dei migranti, che ha suscitato polemiche e dibattiti considerando in particolare la storia dei cittadini di questi paesi, ospitati nei paesi vicini in diverse fasi della loro storia.
Nonostante qualche differenza importante (ogni paese ha le proprie specifiche ragioni, anche all’interno del ristretto gruppo di Visegrad), pare di trovarsi di fronte ad un muro compatto (non solo fisico), soprattutto alla luce dei più recenti avvenimenti politici (la vittoria o il buon piazzamento dei partiti di destra alle ultime elezioni polacche e croate, prima presidenziali e poi parlamentari[1]).
Le motivazioni di questo atteggiamento sono piuttosto complesse e possono essere distinte in due tipologie principali: motivi contingenti (le pressioni delle destre, della crisi economica, la paura del diverso, etc.) e motivi di lungo periodo (la storia di questi paesi e il loro rapporto con l’integrazione europea in termini di sacrifici per la sovranità).
L’affermazione statuale e nazionale dei paesi dell’Europa centro-orientale è piuttosto recente, se paragonata ai paesi dell’Europa occidentale. Si tratta inoltre di popolazioni di ridotte o medie dimensioni che temono contaminazioni, anche se vi è la consapevolezza che il passaggio dei migranti è di durata temporanea. Ancora, sono popolazioni con tradizioni di emigrazione e non di accoglimento di immigrati; percepiscono una sorta di shock culturale nei confronti di culture così diverse dalle loro; hanno meno risorse economiche ed organizzative per affrontare le emergenze. Non si tratta però di paesi omogenei, anzi. Alcuni di essi (Albania, Bosnia, Bulgaria, Macedonia, Kosovo) convivono da secoli con la religione islamica. Ma si tratta di un islam “europeo”.
Per quanto riguarda le motivazioni di carattere più “istituzionale”, i paesi dell’Europa centro-orientale sono entrati nell’Unione europea per ragioni geo-politiche ed economiche ma non hanno mai apertamente gradito la limitazione della sovranità, considerando il loro passato di sovranità limitata o assente (perché membri di federazioni o sottoposti comunque al giogo comunista). Infatti, considerano di maggiore interesse strategico l’ingresso nella NATO piuttosto che nell’UE. E sono spaventati dall’espansionismo russo verso Ovest.
Bisogna dunque in primo luogo considerare il contesto politico in cui maturano certe posizioni: crescita dell’estrema destra e dei populismi, rigurgiti neo-nazisti, appuntamenti elettorali imminenti (oltre ai citati casi di Polonia e Croazia, si vota in Slovacchia e Romania nel 2016, anche qui sono in crescita le forze di destra). In secondo luogo vi è l’approccio alle limitazioni della sovranità nazionale: le quote vengono viste come un’imposizione illegittima da parte dell’UE. Ancora, rimane ampia la distanza tra le elités liberali e l’opinione pubblica: l’entusiasmo dell’opinione pubblica per l’Europa è scemato dopo l’ingresso mentre la qualità politica delle élite al governo è molto peggiorata se paragonata a quelle che hanno “portato in Europa” i rispettivi paesi.
Tuttavia crisi come queste rappresentano occasioni di chiarimento. Allo stesso tempo, le prospettive conducono verso un inevitabile allineamento alle posizioni dominanti, a partire da quella tedesca. Rimane dura la posizione ufficiale della Slovacchia che insieme all’Ungheria ha deciso di fare ricorso alla Corte di giustizia.
Quest’ultimo punto ci deve far riflettere sul fatto che le difficoltà dei paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica, membri dell’UE o candidati a diventarlo, non sono solo legate al contingente transito dei migranti ma anche al più ampio concetto di limitazione della sovranità nazionale e del tipo di Europa del quale si vuole fare parte (ci sono più sacrifici che benefici?). Questi paesi sottolineano che accettano di ospitare un certo numero di rifugiati (ma non di migranti economici) di propria volontà e non come imposizione e che se la situazione dovesse diventare insostenibile smetteranno di farlo (in particolare la Polonia, per il timore di esodi massicci dall’Ucraina).
Già nella dichiarazione di Praga degli inizi di settembre 2015 i paesi del V4 o Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia) avevano bocciato senza mezzi termini il sistema delle quote, perché “la natura volontaria di qualsiasi misura di solidarietà e le capacità di ogni Stato non possono mai essere prevaricate”. La situazione più precaria, in relazione al numero di migranti di transito, è stata quella dell’Ungheria. Tuttavia anche Repubblica Ceca e Slovacchia, che non hanno problemi di contatto con situazioni di gravi crisi umanitarie o transiti di migranti si sono mostrate più che resistenti davanti alle richieste di accoglienza di Bruxelles. Il Primo Ministro ceco Bohuslav Sobotka, similmente al suo omologo polacco, ha ribadito che la sovranità statale non deve mai essere calpestata per questioni di primaria importanza. Gli ha fatto eco il Ministro degli interni, Milan Chovanec, che ha parlato del sistema delle quote come di una soluzione superficiale, ed ha richiesto la presenza di rappresentanti cechi all’interno dei punti di registrazione in Italia e Grecia e, in modo non troppo velato, ha dimostrato di apprezzare la soluzione ungherese (i muri ai diversi confini del paese[2]) al contenimento del flusso migratorio.
Insomma, pare che i nuovi membri dell’Unione europea siano molto più conservatori di quelli vecchi. Hanno vissuto profonde trasformazioni costituzionali, hanno faticato per allinearsi al modello economico ed istituzionale occidentale, hanno super-protetto i diritti fondamentali. E non sono disposti a ulteriori sacrifici della propria statualità a meno che non se ne dimostri per loro una utilità pratica. Questo egoismo est-europeo si incontra su molti fronti, a partire da quello economico (tra le posizioni più dure nei confronti degli aiuti alla Grecia vi è stata ad esempio quella della Slovacchia).
Considerazioni non molto diverse possono essere fatte per i paesi candidati dei Balcani occidentali: l’interesse per l’ingresso nell’UE va inevitabilmente scemando. La crisi dell’euro rende meno attraente il super-club europeo e le richieste della condizionalità europea sono pesanti per paesi piccoli, prevalentemente poveri e dove non si sono ancora risolti gli strascichi delle guerre inter-etniche.
Lo scorso 16 novembre il parlamento ungherese ha approvato, con i voti del partito di governo Fidesz e di Jobbik, movimento di estrema destra formalmente all’opposizione, una legge che di fatto impone al governo il ricorso alla EUCG. In tale legge si afferma infatti che il sistema delle quote ignora il principio europeo di sussidiarietà e toglie ai parlamenti nazionali l’opportunità di esprimere la propria opinione. Nel preambolo della legge si afferma pure che il sistema delle quote è pericoloso, che aumenterà la criminalità, diffonderà il terrorismo in Europa e danneggerà la cultura ungherese. Secondo il Ministro della Giustizia Laszlo Trocsanyi il ricorso sarà presentato a dicembre. In maniera analoga ha deciso il governo slovacco.
In entrambi i casi, si fa riferimento a quanto previsto dall’art. 263 del TFEU, che recita:
“The Court of Justice of the European Union shall review the legality of legislative acts, of acts of the Council, of the Commission and of the European Central Bank, other than recommendations and opinions, and of acts of the European Parliament and of the European Council intended to produce legal effects vis-à-vis third parties. It shall also review the legality of acts of bodies, offices or agencies of the Union intended to produce legal effects vis-à-vis third parties.
It shall for this purpose have jurisdiction in actions brought by a Member State, the European Parliament, the Council or the Commission on grounds of lack of competence, infringement of an essential procedural requirement, infringement of the Treaties or of any rule of law relating to their application, or misuse of powers.”
Il premier slovacco Fico ha contestato anche il fatto che la redistribuzione dei migranti sia stata approvata a maggioranza qualificata e non all’unanimità.
[1] Su queste si rinvia a A. Angeli, The political and electoral system of Croatia: The great uncertainty after the 2015 parliamentary elections, in www.dipeo.unimi.it; A. Angeli, Elections in Poland: the legal framework and the political landscape, in www.federalismi.it, n. 21, 2015.
[2] Inoltre, nel mese di aprile del 2014 il governo ha fatto recapitare a tutte le famiglie ungheresi un piccolo questionario che raccogliesse pareri e percezioni sulla questione migrazione. Contemporaneamente venivano affissi in ogni città manifesti contenenti slogan quali “se vieni in Ungheria, non portare via il lavoro agli ungheresi”. Una serie di misure legislative entrate in vigore il 15 settembre prevedono: la possibilità di costituire “zone di transito” al confine (con regime analogo a quello delle zone aeroportuali); l’inasprimento delle pene per traffico di esseri umani (fino a 10 anni di carcere); la possibilità per il governo di decretare lo stato di crisi, motivato da “immigrazione massiva”, nei termini fissati dalla legge, per un termine determinato; lo snellimento di tempi e procedure di riconoscimento dello status di rifugiato (già al confine). Sono infine stati introdotti nel codice penale tre nuovi tipi di reati legati alla “chiusura della frontiera”: l’attraversamento illegale della frontiera, la forzatura fisica e il danneggiamento delle recinzioni, ostruzione ai lavori di recinzione della frontiera (fonte: C. Preiner).