IL COLPO DI STATO IN MYANMAR, TRA DINAMICHE ORMAI NOTE E FUTURO INCERTO.

MYANMAR COUP, BETWEEN ALREADY-KNOWN DYNAMICS AND AN UNCERTAIN FUTURE.

di Alessandro Gavazzi[1]

Durante la mattinata del primo febbraio 2021 le forze armate birmane hanno (ri)preso il controllo del paese, nel giorno dell’insediamento del nuovo parlamento e durante i festeggiamenti per il decimo anniversario della prima seduta del legislativo dopo 23 anni di inattività forzata: l’Assembly of Union si riunì, per la prima volta dal 1988, il 31 gennaio 2011. Se quest’ultima corrispondenza di date può essere considerata una coincidenza, lo stesso non si può dire per la prima: il Tatmadaw (l’esercito birmano) ha infatti approfittato della contemporanea presenza nella capitale degli esponenti della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) e delle forze di maggioranza per procedere a numerosi arresti, tra i quali quello della stessa Aung San Suu Kyi, consigliere di Stato e leader de facto del paese, e di Win Myint, presidente del Myanmar.

Appare evidente come le azioni intraprese dai militari siano frutto di un’attenta progettazione e di un preciso coordinamento, realizzati con chirurgica precisione. Diversi personaggi politicamente favorevoli ad Aung San Suu Kyi che non si trovavano a Naypydaw al momento del golpe, infatti, sono stati prelevati dalle loro abitazioni in tutto il territorio nazionale nel giro di poche ore, le comunicazioni telefoniche e la connessione internet sono state prontamente limitate e l’accesso ai social network, principale canale di comunicazione (e di protesta) è stato bloccato “per garantire la stabilità del paese”. Un breve videomessaggio è stato trasmesso sulla rete televisiva controllata dalle forze armate. In pochi minuti è stato comunicato che potere legislativo, esecutivo e giudiziario passano interamente nelle mani del generale Min Aung Hlang, mentre il generale Mynt Swe assume la carica di presidente ad interim; viene dichiarato inoltre lo stato di emergenza nazionale, destinato a perdurare per i prossimi 12 mesi.

Il colpo di stato ha luogo in un momento particolarmente delicato della storia del paese. Ormai da mesi le forze armate contestano i risultati delle elezioni legislative tenutesi nel novembre 2020 che videro l’NLD, guidato da Suu Kyi, trionfare con oltre l’86% dei consensi, a fronte del misero 6,9% ottenuto dal Partito dell’Unione per la Solidarietà e per lo Sviluppo (USDP), espressione diretta del Tatmadaw. I generali birmani hanno da subito gridato ai brogli, denunciando anomalie nello svolgimento delle consultazioni.  La Commissione Elettorale ha confermato la legittimità dei risultati ma, essendo i membri di quest’organo nominati direttamente dall’esecutivo (a guida NLD) l’USDP ha richiesto il parere della Corte Suprema, la quale ha rilasciato il verdetto il 28 di gennaio, certificando l’assenza di irregolarità. A questo punto, l’esercito ha deciso di agire e, invocando la sezione 417[2] della Costituzione, ha preso il controllo del paese con il pretesto di indagare sulle presunte frodi elettorali. La necessità di giustificare almeno formalmente le proprie azioni si ritrova anche nel verbale di arresto di Aung San Suu Kyi: la figlia del generale Aung San è stata condannata a due anni di carcere con l’accusa – quasi comica, date le circostanze – di “violazione delle leggi sull’import-export”; in particolare di “importazione illegale di strumenti per le comunicazioni”. Sono state rinvenute nella sua abitazione sei apparecchi radio (walkie-talkie) importati illegalmente.

I fatti del primo febbraio, preoccupante déjà vu dei passati decenni, testimoniano come la volontà collettiva del corpo militare sia chiara: il Tatmadaw non ha intenzione di lasciare il potere. E non l’ha mai perso davvero. La Repubblica dell’Unione del Myanmar è stata governata dalle forze armate dal 1962 al secondo decennio del XXI secolo; in cinquant’anni di dominio i generali birmani hanno consolidato il loro potere, assunto il controllo dei settori strategici e non hanno mai smesso di percepirsi come i veri protettori della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’unità del paese. Lo stesso periodo di transizione democratica iniziato con il ritorno in campo di Aung San Suu Kyi nel 2011 e proseguito con le elezioni del 2015, le prime realmente libere dal 2015, non si è verificato senza il placet dei vertici militari nel paese. La nuova ventata di democrazia guidata dalla paladina dei diritti umani dopo mezzo secolo di dittatura militare, salutata in Europa e Nord America come una grande vittoria dei valori occidentali, fu una “democratizzazione controllata”, autorizzata dal Tatmadaw e attentamente monitorata. Il cambiamento di rotta venne concesso al fine di ottenere il sostegno dell’Occidente e bilanciare la crescente influenza dell’ingombrante vicino cinese, ma la presa delle forze armate sulla vita politica del paese è sempre rimasta salda. Basta uno sguardo alla Costituzione del Myanmar per capire come, rimanendo quest’ultima in vigore, il processo di democratizzazione mai avrebbe potuto realizzarsi compiutamente. La Carta, adottata nel 2008, accorda all’esercito una quota di potere estremamente consistente, in grado di determinare gli equilibri politici: alle forze armate spetta infatti un quarto dei seggi in entrambe le camere del parlamento e tre ministeri fondamentali quali difesa, affari interni e affari di confine. Considerando che per emendare il testo costituzionale è necessaria una maggioranza del 76%, è di fatto impossibile modificare la costituzione senza i voti dei militari, i quali non hanno alcun interesse a farlo. Inoltre, una clausola impedisce di accedere alla carica di presidente dell’Unione a chiunque il cui coniuge o figli abbiano una cittadinanza diversa da quella birmana[3]. Tale postilla sembra essere stata aggiunta ad hoc per non permettere ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente: suo marito, Michael Aris, e i suoi figli hanno infatti cittadinanza britannica.

Un’ulteriore, gravissima, carenza della Costituzione del Myanmar è la totale assenza di qualunque riferimento ai rohingya. La stessa dicitura ufficiale del paese “Repubblica dell’Unione” lascia intendere il carattere multietnico, eterogeneo e composito della popolazione stanziata sul suo territorio. Le autorità riconoscono ufficialmente 135 minoranze etniche suddivise, in base ad una legge del 1982, in otto sottogruppi principali e – almeno formalmente – tutelate dalla legge. I rohingya, invece, non vengono nemmeno nominati. Spesso, in Myanmanr, ci si riferisce alla minoranza musulmana originaria del Rakhine non con il nome che essi riconoscono come proprio ma come “residenti bengalesi” o “migranti illegali bengalesi”, e viene loro negato lo status di cittadini birmani. Considerati una “minaccia all’etnia e alla religione di stato” da parte della maggioranza buddhista bamar, dominante del paese, il popolo rohingya è stato oggetto di violente persecuzioni da parte del Tatmadaw per anni. L’apice delle violenze è stato raggiunto nell’agosto del 2017, quando un gruppo di militari dell’Arkan Rohingya Salvation Army (ARSA) attaccò diverse postazioni di polizia scatenando la dura reazione dell’esercito, che portò a più di 6700 vittime solo nelle prime quattro settimane di scontri e ad oltre 700000 sfollati, costretti a trovare rifugio in Bangladesh. Questi fatti scatenarono l’indignazione internazionale e le voci di condanna si levarono compatte dalle cancellerie occidentali, arrivando a coinvolgere la stessa Aung San Suu Kyi, accusata di non essersi opposta con sufficiente forza alle persecuzioni dei rohingya e, anzi, di averle permesse. Un ulteriore colpo ai suoi sostenitori è arrivato durante il processo presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia, nel quale il premio Nobel per la Pace (1991) ha difeso l’operato delle forze armate, negando il coinvolgimento degli stessi generali responsabili anche dei suoi anni di prigionia.   Perfino numerosi capi di stato e vertici di organizzazioni internazionali hanno criticato il comportamento di Suu Kyi in favore dei militari. Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato: “se possiamo accusarla di qualcosa è di essere stata troppo vicina all’Esercito e di averlo protetto eccessivamente”, mentre l’Unione Europea l’ha sospesa dal premio Sakharov per la libertà di pensiero.  Durante i suoi anni di governo, Suu Kyi ha dovuto condividere il potere con lo “stato parallelo”.

Le reazioni della comunità internazionale agli eventi del primo febbraio sono state diversificate. Se dall’Occidente arrivano parole di condanna del golpe e appelli, rivolti ai militari, a rispettare la volontà popolare emersa dalle consultazioni di novembre e a garantire le libertà democratiche dei cittadini, da Pechino traspare un atteggiamento più cauto. L’amministrazione Usa, attraverso il segretario di stato Antony Blinken, appoggia l’ipotesi di nuove sanzioni, mentre la Cina ha esercitato il suo diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare una risoluzione di condanna del colpo di stato. Lo scontro sino-statunitense – che, inevitabilmente, trova una sua declinazione anche in Myanmar – gioca a favore del Tatmadaw: gli Stati Uniti sono costretti ad evitare che il nuovo governo birmano si sposti eccessivamente verso Pechino e, così come gli altri paesi della regione schierati in posizione anticinese, non possono permettersi di rompere totalmente i rapporti con Naypydaw. Anche la Cina, dal canto suo, guarda con attenzione agli sviluppi del paese, aspettando di capire la politica che i vertici militari perseguiranno e ha tutto l’interesse a riportare il Myanmar nella sua sfera di influenza. Oltre ad essere diventata, durante il governo di Aung San Suu Kyi, il primo partner commerciale e il secondo investitore nell’economia del paese dopo Singapore, la Cina vede nel Myanmar uno snodo strategico fondamentale, soprattutto nell’ambito del progetto delle Nuove Vie della Seta. La costa occidentale birmana si affaccia infatti sullo stretto del Bengala: il libero accesso ad essa permetterebbe di aggirare lo stretto di Malacca, controllato dalla marina militare Usa, e aprirebbe una nuova via al commercio marittimo cinese nel globo. La priorità cinese, al momento, è dunque la stabilità interna del paese, a prescindere da chi lo governi. I rapporti internazionali tra le potenze coinvolte sono tali da permettere ai vertici del Tatmadaw un discreto margine di manovra all’interno del paese, e questa non è certo una buona notizia per gli oppositori del regime (rohingya compresi).

Ad ogni modo, il blocco dei social network non ha impedito ai birmani di organizzarsi e di protestare contro il colpo di stato. Dopo Facebook (di gran lunga il più utilizzato) sono stati oscurati anche Twitter e Instagram, generando un “blackout di Internet su scala nazionale” durante il quale “la connettività è stata ridotta del 54% rispetto ai livelli ordinari” secondo quanto riportato dall’Ong NetBlocks, ma in diverse città del paese si è assistito a scene di proteste pacifiche, manifestazioni e cortei dove il rosso, il colore dell’NLD, l’ha fatta da padrone. A Yangon, la città più popolosa, per far udire la propria voce i cittadini hanno sfruttato la secolare tradizione birmana secondo la quale sbattere pentole e coperchi allontanerebbe i cattivi spiriti: il frastuono deve essere arrivato anche alle dei generali. Se la risposta della comunità internazionale non ha ancora prodotto risultati concreti, la popolazione civile birmana ha già dimostrato il suo malcontento, spinta dal timore che la storia possa ripetersi.

FONTI

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Di Muro – “Cina e Myanmar fratelli coltelli”, Limes n. 6/2020, giugno 2020

Di Muro – “I militari si riprendono il Myanmar e scommettono sullo scontro Usa-Cina”, Limes online, 04/02/2021: Il potere dei militari in Myanmar e lo scontro Usa-Cina – Limes (limesonline.com)

Ugolini – “Colpo di stato in Myanmar, una giovane democrazia sempre più fragile”, Geopolitica.info online, 01/02/2021: Colpo di stato in Myanmar, una giovane democrazia sempre più fragile – Geopolitica.infoGeopolitica.info

Sciorati (a cura di) – “Myanmar, ritorno al passato”, Ispi online, 01/02/2021: Myanmar, ritorno al passato | ISPI (ispionline.it)

Canestri – “Colpo di Stato in Myanmar: cosa è successo”, Sicurezza Internazionale online, 01/02/2021: Colpo di Stato in Myanmar: cosa è successo | Sicurezza internazionale | LUIS

“Myanmar: il presidente chiede riforma costituzionale”, Sicurezza Internazionale online, 04/01/2018: Myanmar: il presidente chiede riforma costituzionale | Sicurezza internazionale | LUISS

Petroni – “Il golpe in Myanmar, gli F35 sul Cavour e altre notizie interessanti”, Limes online, 01/02/2021: Notizie dal mondo oggi 1° febbraio: golpe in Myanmar – Limes (limesonline.com)

“Myanmar coup: China blocks UN condemnation as protest grows”, BBC online, 08/02/2021: Myanmar coup: China blocks UN condemnation as protest grows – BBC News

Cappelletti – “Il tramonto di Aung San Suu Kyi. L’Europa la sospende dal Premio Sakharov per il genocidio dei Rohingya”, Open online, 11/09/2020: Il tramonto di Aung San Suu Kyi. L’Europa la sospende dal Premio Sakharov per il genocidio dei Rohingya – Open

Bultrini – “Quegli anni di patto con il diavolo in cui Aung San Suu Kyi non è stata libera dalla paura”, La Repubblica online, 01/02/2021: Myanmar, colpo di Stato: le accuse alla Lady birmana alla luce del golpe – la Repubblica

Baroni – “Colpo di Stato in Myanmar (Birmania), arrestata dai militari Aung San Suu Kyi. La premio Nobel: «Non accettate il golpe»”, Il Corriere della Sera online, 01/02/2021: Myanmar, colpo di Stato: arrestata dai militari Aung San Suu Kyi- Corriere.it

Pia Mazza – “«Abbasso la dittatura militare»: in Myanmar si allargano le proteste contro il golpe”, Open online, 06/02/2021: «Abbasso la dittatura militare»: in Myanmar si allargano le proteste contro il golpe – Open

[1] * Studente di Scienze Internazionali e Istituzioni Europee, Università degli Studi di Milano

[2] CONSTITUTION OF THE REPUBLIC OF THE UNION OF MYANMAR (2008). 417. If there arises or if there is sufficient reason for a state of emergency to arise that may disintegrate the Union or disintegrate national solidarity or that may cause the loss of sovereignty, due to acts or attempts to take over the sovereignty of the Union by insurgency, violence and wrongful forcible means, the President may, after co-ordinating with the National Defence and Security Council, promulgate an ordinance and declare a state of emergency. In the said ordinance, it shall be stated that the area where the state of emergency in operation is the entire Nation and the specified duration is one year from the day of promulgation.

[3] CONSTITUTION OF THE REPUBLIC OF THE UNION OF MYANMAR (2008). 59. Qualifications of the President and Vice-Presidents are as follows: […] (f) shall he himself, one of the parents, the spouse, one of the legitimate children or their spouses not owe allegiance to a foreign power, not be subject of a foreign power or citizen of a foreign country.

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