EIN JAHR PROTESTE IN ALGERIEN: WER WIRD SICH DURCHSETZEN?

UN ANNO DI PROTESTE IN ALGERIA: CHI LA SPUNTERÀ?

Traduzione a cura di Sara Zanotta1

(Articolo di Isabelle Werenfels e Luca Miehe, pubblicato sul sito della Stiftung Wissenschaft und Politik)

Testo originale reperibile in: https://www.swp-berlin.org/publikation/ein-jahr-proteste-in-algerien/

Contrariamente alle aspettative, continuano da un anno le proteste pacifiche in Algeria. Infatti, nonostante la caduta dell’ex presidente Bouteflika, manca ancora un cambiamento politico e il futuro del Paese resta incerto secondo Isabelle Werenfels e Luca Miehe.

Nonostante le proteste che continuano da un anno, il regime algerino non è né crollato né ha fatto ricorso a violenza massiccia. Tuttavia, il Paese non trova la tranquillità dopo le elezioni estremamente controverse del nuovo presidente Aldelmajid Tebboune a dicembre. Questi, così come parte del suo gabinetto, provengono dall’ambiente del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto alle dimissioni in seguito alle proteste nell’aprile 2019. Già per questo non gode di consenso. Inoltre, molto suggerisce che il centro del potere resti piuttosto nelle mani dei militari che in quelle del presidente.

Intanto, decine di migliaia di persone protestano pacificamente ogni settimana per una svolta democratica e lo stato di diritto, contro il presidente, considerato illegittimo, e per le dimissioni di tutte le persone che appartenevamo alla rete corrotta dell’era di Bouteflika. La mobilizzazione costante è degna di nota sotto diversi aspetti poiché il movimento di protesta manca sia di una struttura organizzativa e di leadership che di risultati tangibili per quanto riguarda le riforme politiche.

Anche se il regime tiene ancora le redini, vista la persistenza e la determinazione del movimento di protesta, il cosiddetto hirak, si solleva una questione: chi sarà più resiliente? Il regime o l’hirak?

STRATEGIE DEL GOVERNO: IL BASTONE E LA CAROTA

Dalla sua entrata in carica il presidente Tebboune si batte per la legittimità. I segnali del regime oscillano tra promesse di riforme democratiche e continuità autoritaria, tra cooptazione e repressione. Il presidente ha adottato delle misure per una riforma costituzionale, ha rilasciato quasi 10.000 detenuti e ha iniziato a intensificare la lotta alla corruzione, a razionalizzare l’amministrazione e la rafforzare la cultura delle start-up. Diverse persone simpatizzanti con l’hirak sono state nominate nel governo. Intanto, a contrastare con i segnali positivi di Tebboune, restano gli arresti degli attivisti e il fatto che prominenti critici del regime si trovino tuttora in carcere. Il nuovo presidente e il capo di stato maggiore cercano, come i loro predecessori, di dividere e discreditare l’hirak strumentalizzando i sentimenti nazionalistici, discriminando i simboli berberi, giocando con i timori sulla sicurezza e accusando i protestanti di essere controllati dall’esterno. Il regime scommette apertamente sulla dissoluzione delle proteste senza sporcarsi le mani con un duro intervento delle forze di sicurezza.

DIVISIONE E RIUTILIZZAZIONE COME PERICOLI PER L’HIRAK

Tuttavia, questo calcolo non dovrebbe essere così facile. Tra le conquiste centrali dell’hirak vi è la rimobilitazione e la ripoliticizzazione di una società che per molti anni è stata tenuta lontana dall’impegno civile attraverso i divieti di dimostrazioni, gli organi di sicurezza, il trauma della guerra civile degli anni 90 così come i generosi sussidi statali. L’hirak ha registrato come vittorie il ritiro di Bouteflika e i processi per corruzione contro le élite politiche ed economiche. Continuerà a mobilizzarsi finché non sarà in vista una credibile svolta democratica.

Senza un progetto contro l’agenda di “riforme” di Tebboune e senza una struttura organizzativa, le marce settimanali corrono il rischio di diventare fini a se stesse. Offrono al regime vie d’accesso per cooptazione e manipolazione. Regna già un profondo disaccordo su come vengono affrontate offerte di dialogo del regime e quanta diversità culturale dovrebbe contenere il futuro modello di società. Infine, con la crescente crisi economica le richieste socio-economiche potrebbero mettere in ombra quelle politiche.

Tuttavia, il regime non può più come nel passato comprare la pace sociale. Finora l’Algeria non è riuscita a ridurre la sua dipendenza dai proventi del petrolio e del gas, che rappresentano circa il 90% dei proventi delle esportazioni. Questi crollano dal 2014 e fanno diminuire le riserve di valuta estera. Ora, le proteste a livello nazionale hanno portato all’incarcerazione dei capi dei gruppi industriali durante la campagna anti-corruzione così come a restrizioni sulle importazioni e a massicci tagli di posti di lavoro e hanno intensificato la crisi economica. Anche le riforme subito introdotte potrebbero a malapena evitare una crisi socio-economica.

LE PROSPETTIVE: IL RISCHIO DI UNO STATO DISFUNZIONALE

La situazione economica dovrebbe essere determinante per tutti i possibili scenari futuri. Le attuali promesse di riforme politiche del presidente e del governo, il cosiddetto “New Deal per l’Algeria”, da questa prospettiva potrebbero essere viste come un salto in avanti. Con questo è del tutto possibile un intervento dall’alto: le riforme annunciate sfuggono al controllo del regime e conducono ad una transizione democratica. Paradossalmente, la diffusa diffidenza nei confronti del governo potrebbe impedire una simile dinamica: anche se il regime o una parte di esso dovesse seriamente pensare a riforme politiche, molti algerini e algerine non ci crederebbero e renderebbero probabilmente difficile la transizione.

Al contrario, un rafforzamento del carattere autoritario del sistema è immaginabile, per esempio se uno spill-over effect dalla Libia, massicce rivolte socio-economiche o la radicalizzazione di uno zoccolo duro dell’hirak offrissero un pretesto per una maggiore repressione agli hardliner del regime.

È più probabile che il regime stia guadagnando tempo con le promesse di riforma. Timori per la stabilizzazione e preoccupazioni economiche rafforzano nuovamente nella popolazione la paura di esperimenti politici e l’hirak si indebolisce. Blocchi politici e deficit di legittimità impediscono riforme essenziali e portano ad una disfunzionalità dello stato e, nel peggiore dei casi, al fallimento dello stato. In questo caso né il regime né l’hirak si sarebbero dimostrati resilienti.

In tutti questi sviluppi gli stati europei, a causa della diffusa paura algerina di influenze esterne, sono condannati allo status di osservatori. La sfida per la Germania e l’Unione Europea sarà la seguente: perseguire gli interessi di stabilità in Nord Africa e sostenere, se auspicabile, l’Algeria nelle riforme economiche, senza con questo minare alla lotta delle algerine e degli algerini per la partecipazione, la libertà e la democratizzazione attraverso un rafforzamento del regime.

1 Studentessa di Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Milano

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