‘TO BEIRUT’: THE LEBANESE CRISIS IN A SONG

‘PER BEIRUT’: LA CRISI LIBANESE IN UNA CANZONE

di Andrea Haidar*

‘Li Beirut’, ‘Per Beirut’. Era il 1984, il Libano era nel pieno di una guerra fratricida che causò più di 150.000 morti e costrinse tra gli 8 e i 14 milioni di libanesi a scappare. Una nazione distrutta, che la cantante Fairouz ha raccontato nella sua celebre canzone dedicata alla capitale libanese.

Sono passati più di 35 anni e la canzone, un inno alla speranza, oggi, come allora, pervade le strade di Beirut. Lo sfondo è tristemente noto. Il 4 agosto, un magazzino contenente 2750 tonnellate di nitrato di ammonio prende fuoco. L’esplosione provoca la morte di oltre 200 persone e il ferimento di più di 7000. L’urto è talmente forte che saltano in aria 90.000 abitazioni, 300.000 persone rimangono senza un tetto. I danni stimati si aggirano tra i 10 e i 15 miliardi di dollari.

Parte subito la caccia a chi abbia permesso di stipare un simile quantitativo di esplosivo nel porto di Beirut, a due passi dalle abitazioni di centinaia di migliaia di civili. Secondo alcuni, la colpa è da attribuire a funzionari governativi, simbolo di una classe politica macchiata di corruzione e clientelismo. Secondo altri, non sarebbe da escludere l’intervento di una mano esterna, che avrebbe approfittato del momento giusto per assestare un colpo finale al Libano. Al momento, sono 16 le persone arrestate, tutte dipendenti del porto.

L’esplosione rappresenta una crisi nella crisi. Economica, in primis. Il Libano ha un rapporto debito Pil del 170%, il terzo valore più alto del mondo. A marzo, il governo Diab ha dichiarato di non essere in grado di rimborsare la rata da 1,2 miliardi di dollari di interessi sul debito pubblico, dichiarando così il default economico. Non era accaduto nemmeno durante la guerra civile.

A fare da contorno, un elevato tasso di disoccupazione, il caro prezzi e la caduta libera della lira libanese. Nei mesi scorsi la valuta ha perso il 60% del suo valore, l’80 se la si paragona ai dati di ottobre. Questo ha provocato un brusco aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, che hanno subito un aumento anche del 300%. Secondo alcuni esperti questi dati potrebbero portare il Libano, in un futuro non troppo lontano, in una situazione simile a quella venezuelana.

Al Barrack, ex funzionario governativo residente a Beirut, ha raccontato a NAD le criticità che affrontano quotidianamente i cittadini libanesi: “I prezzi dei generi alimentari sono aumentati in maniera esponenziale. Se a settembre 2019 1 chilo di caffè costava 8.000 lire libanesi, adesso arriva a costare 50.000. 1 chilo di carne di agnello, che prima veniva venduto a 8.000 lire libanesi, ora ha un prezzo di 90.000 lire. Anche gli stipendi hanno subito un durissimo colpo. In particolar modo, quelli degli impiegati statali. Un insegnante che prima guadagnava 800 dollari, ora ne riceve 150. Le differenze tra classi povere e classi medie non esistono più”.

La crisi economica si intreccia con una gravissima crisi politica. Il 17 ottobre 2019, centinaia di libanesi si sono riversati sulle strade di tutto il paese per protestare contro una classe politica accusata di corruzione e di clientelismo. Per 12 giorni, al grido di ‘Tutti significa tutti’, manifestanti di ogni età e religione hanno richiesto un cambio di governo e una modifica radicale del sistema istituzionale libanese, in cui le cariche politiche, come sancito dagli accordi di Taif, sono distribuite in base alla confessione religiosa. Incalzato dai manifestanti, il 29 ottobre, il premier Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni, passando il testimone a Hassan Diab. Un nuovo governo destinato a durare poco, anzi pochissimo.

L’esplosione al porto di Beirut ha rigettato il paese nel caos. Le immagini di migliaia di persone in protesta contro la classe politica hanno fatto il giro del mondo. Gli stessi giovani che al mattino, armati di scopa e secchiello, raccoglievano i detriti disseminati intorno al luogo dell’esplosione, nel pomeriggio e nella sera protestavano in piazza, chi pacificamente e chi meno.

Il risultato delle proteste? Un nuovo cambio di governo, anche se al momento rimane l’incognita sul nome di chi avrà l’onore o, meglio, l’onere di prendere il posto di Diab. Lo spettro delle elezioni anticipate, richieste a gran voce dai manifestanti e dallo stesso premier uscente, è stato respinto dal presidente del parlamento libanese Nabih Berri e da molti deputati, preoccupati per il rischio di un’ulteriore crisi istituzionale.

L’ultimo tassello che forma la grande crisi libanese è rappresentato dal sistema sanitario. L’epidemia di Coronavirus, che sembrava avesse risparmiato il Libano, ha raggiunto il suo apice proprio nel mese di agosto. Dal giorno dell’esplosione al porto, alla fine di agosto, il numero dei positivi è più che raddoppiato: il 4 agosto erano 5.271, il 22 dello stesso mese, 12.191.

Sono aumentati di pari passo i ricoverati, ma sono diminuiti i posti letto: il disastro del 4 agosto ha causato la distruzione dei cinque ospedali più grandi del Libano, lasciando migliaia di libanesi senza la possibilità di ricevere cure mediche. Per evitare una crescita dei casi, il 21 agosto il ministero dell’interno ha proclamato un coprifuoco. Fino al 7 settembre, i libanesi non potranno uscire di casa dalle 6 di sera alle 6 del mattino.

Le immagini scioccanti dell’esplosione del porto di Beirut hanno innescato una catena di aiuti. Dal premier francese Macron al ministro della difesa italiano Guerini, numerosi politici di tutto il mondo si sono recati in Libano per esprimere il proprio sostegno al paese. In un summit organizzato dalla Francia che ha visto la partecipazione dei principali leader mondiali, sono stati raccolti 300 milioni di dollari, da destinare direttamente alla popolazione libanese. Non sono mancati gli aiuti dei paesi arabi: il Kuwait ha promesso di ricostruire i silos di grano del porto di Beirut; l’Arabia Saudita ha inviato 120 tonnellate di medicinali e apparecchi salvavita. Resta da chiedersi, e questo solo il futuro potrà rivelarlo, se tali aiuti serviranno davvero a ricostruire il paese, che ora sembra tristemente destinato a rimanere in ginocchio.

“Beirut è vino prodotto dall’anima del suo popolo. È pane e gelsomini prodotti dal suo sudore, perché allora adesso sa di fuoco e di fumo?”, cantava Fairouz. Era il 1984, oggi il 2020. Qualcosa è cambiato?

FONTI:

* Laureato in Relazioni Internazionali. Cultore di materia di Storia e Istituzioni dei Paesi Islamici presso l’Università degli Studi di Milano.

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