THE RECENT HISTORY OF THE CONFLICT BETWEEN FULANI AND DOGON IN MALI AMID THE FIGHT FOR NATURAL RESOURCES AND JIHADISM

LA STORIA RECENTE DEL CONFLITTO TRA FULANI E DOGON IN MALI TRA LOTTA PER LE RISORSE NATURALI E JIHADISMO

di Sara Zanotta

«Non è una questione di vendetta. Non bisogna ripagare il male con il male. Mi auguro che la vendetta venga fermata. Dovremmo darci la mano per affrontare le sfide attuali. Dovremmo fare attenzione, perché il Mali non è che una sola famiglia», queste sono state le parole pronunciate dall’imam Dicko, una delle figure più rilevanti della politica maliana, in un discorso tenuto pochi giorni dopo il colpo di Stato militare del 18 agosto 2020 che ha messo fine al regime del presidente Ibrahim Boubakar Keïta. L’imam si rivolgeva a due gruppi etnici, i fulani e i dogon, che da alcuni anni portano avanti un conflitto, nato dalla lotta per le risorse, scarse dopo le ondate di siccità che hanno colpito la regione negli anni ‘70 e ‘80, rafforzato dall’instabilità che caratterizza il paese dal 2012, anno di inizio della guerra civile, intrecciato alla proliferazione di gruppi jihadisti e continuato per l’incapacità dello Stato e degli attori esterni, come gli organismi regionali, se non le Nazioni Unite, di pacificare le due fazioni.

I FULANI E I DOGON: UNA TERRA, DUE POPOLI

Nella regione di Mopti, nel Mali centrale, la coabitazione, talvolta pacifica, talvolta conflittuale, tra le popolazioni di etnia fulani e dogon risale al periodo precedente la fondazione dell’impero di Masina: uno Stato teocratico creato dal predicatore fulani Seku Amadu nel 1818. I dogon, a maggioranza animista, sono dediti alla coltivazione, soprattutto di cereali, mentre i fulani, musulmani, sono per tradizione pastori transumanti, che hanno storicamente basato la loro economia su razzie e commercio di schiavi. Come raccontato da De Buijn, Van Beek e Van Dijk, «nella storia, i rapporti tra dogon e fulani hanno avuto configurazioni variabili». Nell’epoca pre-coloniale, ad esempio, nell’area della falesia di Bandiangara (nella foto), i fulani cacciavano i dogon per farli schiavi, mentre altrove alcuni gruppi dogon approfittarono delle abilità militari di alcuni esponenti dell’altra etnia per chiedere loro protezione dalle razzie di altri fulani. Successivamente, i rapporti migliorarono al punto che si arrivò persino alla fondazione di villaggi misti.

Tuttavia, un momento chiave nell’evoluzione delle relazioni tra i due popoli è stata la siccità che ha duramente colpito la regione negli anni ‘70 e ‘80 del Novecento. Sebbene entrambe le popolazioni, fortemente dipendenti dalle risorse della terra, abbiano dovuto affrontare grandi difficoltà, i fulani, un tempo la popolazione più potente, si sono ulteriormente indeboliti a causa degli effetti della siccità sulle loro mandrie, uscite decimate. A questo si sono aggiunte anche diverse politiche nazionali, sia per quanto riguarda l’agricoltura che il turismo, che hanno stravolto ulteriormente le relazioni tra le due etnie, privilegiando i dogon.

Il privilegio accordato alle politiche agricole ha favorito gli agricoltori, i quali hanno iniziato ad occupare territori precedentemente utilizzati dalle mandrie fulani, esacerbando le tensioni per l’accesso alla terra. La conseguenza inevitabile di queste politiche è stata l’aumento della frustrazione da parte della popolazione fulani: alcuni pascoli sono andati persi, alcuni terreni, un tempo dedicati al passaggio degli animali, hanno iniziato ad ospitare campi coltivati.

A livello turistico, invece, l’area è stata pubblicizzata come il “paese dogon”, facendo prevalere un’anima monolitica dogon sull’eterogeneità. Tuttavia, per alcuni anni, lo Stato si è dimostrato essere sufficientemente forte da limitare la violenza tra le due comunità a piccoli incidenti, senza che questa si trasformasse nel vero e proprio conflitto etnico che è seguito all’indebolimento dell’autorità maliana successiva allo scoppio, nel 2012, della guerra civile nel paese.

L’INTRICATO INTRECCIO CON IL JIHADISMO

Le crescenti tensioni tra fulani e dogon si sono intrecciate così con il contesto della guerra civile. Quando, con la ribellione tuareg e un colpo di stato, Bamako non è stata più in grado di portare avanti i rapporti clientelari instaurati con le élite locali per il controllo del territorio. Le élite fulani non sono più riuscite a proteggere la popolazione locale da quella che sembrava essere “un’invasione tuareg”. Difatti, lo Stato maliano ha perso la propria autorità su alcune zone della regione del Mopti, passate sotto il controllo del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad, un movimento indipendentista tuareg, e Ansar Dine, un gruppo fondamentalista islamico. A questo punto, gruppi marginalizzati si sono ribellati, cercando protezione nelle fila del neonato Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO).

Quest’ultimo, nel settembre 2012, ha preso il controllo della città di Douentza. In questo periodo, molti ragazzi fulani si sono uniti al movimento jihadista, talvolta guidati da una sete di giustizia sociale, talvolta da un pragmatico spirito di sopravvivenza di fronte alle violente azioni del MUJAO. Nonostante nel gennaio 2013, le forze francesi dell’“operazione Serval” abbiano ripreso il controllo di questa parte di territorio, e teoricamente vi sia stata ristabilita l’autorità di Bamako, di fatto la situazione è rimasta precaria, favorendo la permanenza di una forte instabilità intestina al gruppo fulani. Infatti, sebbene le élite abbiano cercato di reinstaurare la loro autorità, stigmatizzando tentativi individuali di ribellione, ritenendoli allineati all’agenda jihadista – un parallelismo sfruttato anche dalle forze armate maliane per considerare le lotte per l’accesso ai pascoli come terrorismo –,  tale atteggiamento ha esacerbato le tensioni, portando alcuni pastori fulani a sviluppare milizie di autodifesa, miranti a colpire le élite, i capi villaggio e chiunque venisse ritenuto affiancare lo Stato nella difesa dello status quo.

In questa intricata trama, i gruppi jihadisti hanno cercato di trarre dei vantaggi, sfruttando le richieste locali di protezione, redistribuzione e integrità morale, per combattere contro il regime, accusato di essere sostenuto dall’Occidente, incanalando questo conflitto in una jihad globale. In particolare, nel 2015, ha visto la luce il Fronte di Liberazione del Masina, guidato dal fulani Amadou Kouffa, che, ispirato alla storia dell’impero di Masina del XIX secolo, è riuscito a raggruppare diverse milizie di auto-difesa fulani. Nonostante l’appartenenza etnica, Kouffa ha sostenuto di non lanciare «una guerra di rigenerazione sociale a nome di una comunità particolare», tanto da aver stabilito un’alleanza con Ansar Dine, il gruppo fondamentalista guidato da Iyad ag-Ghaly, che negli anni ’90 era stato uno dei capi della rivolta tuareg. Contemporaneamente, sono emersi altri movimenti jihadisti, di dimensioni più contenute, guidati da fulani.

La nascita di gruppi jihadisti fulani ha favorito un parallelismo tra il fondamentalismo islamico e l’etnia stessa, un parallelismo che indubbiamente tende a considerare i fulani in blocco, senza distinzioni tra gli elementi estremisti della popolazione e chi continua a condurre la propria vita senza unirsi a gruppi jihadisti. Questo parallelismo si è largamente diffuso tra gli altri gruppi etnici, i dogon in primis, ma anche i bambara, i bozo e perfino una parte dei soldati maliani nella zona, tanto che – come afferma Boubacar Haidara – nel Mali centrale «il termine jihadista era diventato sinonimo di ‘fulani armato’». Una sineddoche, insomma, già da tempo esistente, ma rafforzata nel contesto precario successivo al 2012, portando all’instaurazione di un circolo vizioso di violenza. Sono quindi nati gruppi di autodifesa, che hanno condotto rappresaglie in villaggi fulani a seguito di attacchi jihadisti.

In particolare, nel 2016 è nata la milizia dogon Dan Nan Ambassagou, il cui obiettivo è colpire qualsiasi nemico dei dogon, contribuendo alla guerra contro il terrorismo tramite attacchi nei villaggi fulani. Da parte fulani, invece, sono emerse delle milizie non-islamiste, che mirano a difendere la comunità dagli attacchi dogon, ma che a loro volta hanno attaccato indiscriminatamente civili nei villaggi. Tuttavia, Dan Nan Ambassagou e altre milizie ad essa alleate hanno avuto la meglio, grazie a equipaggiamenti militari sofisticati che includono anche armi pesanti e giubbotti anti-proiettile di origine sconosciuta. Hanno sottoposto alcuni fulani ad atti di tortura, talvolta persino mutilazioni, e perpetuato veri e propri massacri nella comunità antagonista. Il più terribile è stato quello di Ogossagou, il 23 marzo 2019, dove sono state uccise almeno 160 persone tra i civili innocenti, come bambini e anziani, bruciando vivi alcuni di essi, sgozzandone altri.

Anche al di fuori dei gruppi dogon più violenti, i social network sono stati utilizzati per diffondere messaggi di odio nei confronti dei fulani, affiancandoli ad un’ideologia di dominazione da parte dei dogon, che ha portato una minoranza di questi ultimi a sviluppare persino ambizioni di pulizia etnica, della quale sono stati messi in pratica alcuni terribili tentativi con attacchi indiscriminati verso i villaggi fulani. Al massacro di Ogossagou del 2019, infatti, è seguito un altro attacco allo stesso villaggio il 14 febbraio 2020, durante il quale sono stati feriti e uccisi alcuni civili (alcune fonti parlano di 31, altre di 48, tra cui cinque donne in stato di gravidanza) e bruciate alcune case. Tuttavia, non si tratta di casi isolati: l’ultimo attacco riportato sul giornali risale al 13 ottobre 2020 e ha portato alla morte di due dozzine di civili, a cui si aggiungono anche dei militari maliani. Conseguenza inevitabila di questi attacchi è la fuga di migliaia di fulani che si sono trasferiti nelle grandi città della regione o perfino a Bamako, dove vivono comunque in condizioni precarie.

IL RUOLO DI UNO STATO INERTE

È lecito chiedersi quale ruolo abbia giocato lo Stato, seppur debole, in questo conflitto, quali siano state le sue azioni per tentare di stabilizzare la regione e riportarla alla coesistenza quasi sempre pacifica che l’aveva caratterizzata nel periodo precedente la guerra civile. Ebbene, la posizione non è sempre stata cristallina. Si ipotizza che talvolta siano state aiutate le milizie dogon addirittura inviando delle pattuglie militari a supporto, una mossa che avrebbe ulteriormente rafforzato i timori della popolazione fulani.

Lo Stato sembra essere assente per quanto riguarda le tensioni relative al controllo della terra, aumentando la collera dei fulani, che lo accusano di essere corrotto. Ad esempio, il ricercatore Boubacar Haidara, in un articolo, ha riferito che le autorità giudiziarie della regione ritarderebbero nella risoluzione delle dispute sull’utilizzo delle terre per continuare a ricevere pagamenti da entrambe le parti affinché vengano appoggiate le loro rivendicazioni. Ha aggiunto anche che sarebbero state multate delle donne che raccoglievano legna da ardere e dei pastori con il loro bestiame, fattori che avrebbero rafforzato il sentimento anti-Stato e anti-élite, portando alcuni nelle fila dei jihadisti, che invece si mostrano favorevoli all’accoglimento delle istanze pastorali.

Solo il giorno dopo il massacro di Ogossagou del 2019, il governo si è riunito in un consiglio straordinario per annunciare, da un lato, la riorganizzazione del comando supremo dell’esercito e, dall’altro, la dissoluzione di Dan Nan Ambassagou. Tuttavia, questi passi non sono sembrati sufficienti alla popolazione: delle proteste sono state organizzate a Bamako portando alle dimissioni dell’allora primo ministro Soumeylou Boubèye Maïga, accusato di essere il fautore di una politica di sostegno alla milizia dogon, e alla nomina di Boubou Cissé, un fulani, a primo ministro, carica che ha mantenuto fino al colpo di Stato dell’agosto 2020.

Tuttavia, queste azioni non sono state sufficienti per porre fine alla vita della milizia e ristabilire la sicurezza nella regione. A più di un anno di distanza, il conflitto continua e non sembrano essere stati realizzati dei particolari passi avanti da parte delle autorità statali prima e dopo il golpe.

In primis, né le forze armate maliane né MINUSMA riescono o, come messo in luce da alcuni critici, vogliono riuscire ad affrontare direttamente le milizie armate dogon. Anche un rapporto delle Nazioni Unite sul Mali del primo trimestre del 2018 segnalava che al 1° marzo 2018, nelle regioni settentrionali e nella regione del Mopti solo il 22% dei rappresentanti dello Stato era al proprio posto. Successivamente, il rapporto del Segretario Generale dell’ONU del 29 settembre 2020 indicava la continuazione della violenza intercomunitaria nella regione di Mopti, citando 6 attacchi di gruppi armati e milizie dogon, che hanno causato 9 vittime, e 61 attacchi di gruppi armati fulani, che hanno portato alla morte di 180 persone. Inoltre, indica che la milizia Dan Nan Ambassagou «avrebbe reclutato con la forza degli abitanti di villaggi dogon e fatto rappresaglie contro quelli che rifiutavano di unirsi ad essa».

Dunque, l’annuncio della dissoluzione di Dan Nan Ambassagou si è risolto in un nulla di fatto, al punto che, in un video registrato il 27 settembre 2020, il capo di Stato maggiore della milizia, Youssouf Toloba, ha lanciato un ultimatum di 15 giorni alle autorità di transizione, chiedendo collaborazione e minacciando, altrimenti, che la sua milizia si unirà ai movimenti separatisti dell’Azawad. Sebbene il tempo dell’ultimatum sia ormai scaduto, al momento della scrittura di questa cronaca (20 ottobre 2020) non ci sono state né particolari reazioni da parte del Comité national pour le salut du peuple né una realizzazione pratica delle minacce di Toloba. In ogni caso, il conflitto tra fulani e dogon rimane, anche se probabilmente sarebbe più corretto leggerlo come un conflitto tra esponenti radicali e violenti di ciascuna delle due etnie, che hanno scelto di unirsi alle milizie armate. Indubbiamente, in una fase di instabilità come quella che può seguire un colpo di Stato, maggiore è il rischio che, in un vuoto di potere, si rafforzino i tentativi delle milizie di entrambi gli schieramenti di prendere il controllo di parti di territorio, a discapito della popolazione civile dell’etnia antagonista. Al tempo stesso, le prospettive per il futuro non sono rosee: i cambiamenti climatici, con la conseguente desertificazione ma anche il pericoloso aumento di eventi estremi, come le piogge che hanno colpito l’area saheliana il mese scorso, non faranno altro che intensificare le tensioni tra le due comunità, rischiando di coinvolgere anche coloro che al momento sono ancora civili innocenti in questa sanguinosa lotta per le risorse.

MAPPE SUGGERITE

Per poter comprendere la sovrapposizione dei gruppi etnici fulani e dogon nella regione di Mopti, si suggerisce la consultazione della seguente mappa: G. Chauzal, T. van Damme, The roots of Mali’s conflict, Clingendael, 2015.

Per comprendere la mortalità degli attacchi da parte di milizie etniche e gruppi jihadisti, si suggerisce la lettura della seguente mappa: Fighting in the Sahel has forced 1.7m from their homes, in The Economist, 20 giugno 2020.

FONTI

[1] Studentessa di Relazioni Internazionali e assistente del corso di Storia e Istituzioni dei Paesi Islamici all’Università degli Studi di Milano.

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