Di Cristiana Fiamingo*
Questa nota, presentata al nostro “Osservatorio” in occasione della Giornata della Terra (22 Aprile), è stata stimolata dalle intriganti domande di Michele Mastandrea per una breve intervista pubblicata su «Ohga!» e dal pesante bilancio dei violenti nubifragi che han travolto la costa orientale del Sudafrica, nella provincia del KwaZulu-Natal, sconvolgendo anche la città di Durban e provocando centinaia di vittime. Al 18 aprile 2022, si contavano 443 morti e 63 dispersi (Al Jazeera, 2022 18 Aprile).
La pioggia sferza ancora quella regione mentre migliaia di soldati sono stati spediti a cercare i dispersi e ad avviare la ricostruzione: tutto questo avviene a poco più di due settimane dall’attesa uscita del Sudafrica dallo “State of disaster” enunciata dal Presidente Cyril Ramaphosa (BBC News, 2022 18 Aprile), ed è certo che rallenterà sensibilmente l’uscita dalla crisi pandemica, che si sperava potesse essere messa definitivamente alle spalle, chiudendo almeno questo difficile capitolo. Peggiora invece la crisi sindemica con l’aggravante del fattore del cambiamento climatico, in un’Africa australe estremamente esposta anche sotto questo profilo. Con sindemia si intende l’interazione sinergica di patologie pandemiche sanitarie con i contesti sociali, economici e ambientali in cui si siano sviluppate, mettendo in evidenza i pesanti effetti collaterali che colpiscono, in particolare, le fasce più vulnerabili della popolazione di un Paese. È proprio tale interazione che aggrava l’incidenza di ciascun fenomeno e in modo diseguale, caso per caso, nucleo famigliare per nucleo famigliare, e l’incapacità dello Stato a farvi fronte rafforza tale gravità. Merril Singer è l’illuminato “padre” della valutazione sindemica delle patologie: l’aveva elaborata nel 1990, nel riflettere sugli effetti collaterali in ogni settore della vita sociale americana della pandemia dell’AIDS. La scienza l’ha fatta propria auspicando che la salute pubblica potesse avvantaggiarsi della valutazione complessa dell’impatto delle patologie, consentendo di studiare meglio evoluzione e propagazione di malattie, alla luce del contesto storico e sociopolitico in cui si siano sviluppate per adattarvi una risposta coordinata, in termini di politiche sociosanitarie. Ma se, da un lato, la medicina pubblica sembri aver perso ovunque terreno rispetto a tale progresso, a vantaggio della burocratizzazione delle risposte, della privatizzazione di settori strategici della sanità e della polarizzazione sociale che ne deriva, nel trattare di Stati africani, l’ulteriore elemento peggiorativo la condizione socioeconomica è proprio quello climatico.
Tornando al Sudafrica ecco che, mentre si matura un adattamento alla convivenza con il Covid-19 pur con le sue molteplici varianti, un ulteriore colpo rispetto ad una situazione climatica decisamente compromessa nell’ultimo trentennio in Africa australe mette ancor più in evidenza le debolezze sistemiche di uno degli stati africani, peraltro, percepiti tra i più forti del continente da un punto di vista economico, aggiungendo ad un contesto antropico indebolito dall’ingiustizia sociale che vi domina, una vulnerabilità strutturale con cui occorre fare continuamente i conti (per un esempio, v. Fiamingo 2020a).
Da tempo, come si accennava, la regione orientale dell’Africa meridionale è vittima di sconvolgimenti idrogeologici come quelli che si consumano in questi giorni: con maggiore incidenza e ripetitività rispetto al Sudafrica, in anni recenti, sono stati sconvolti da alluvioni e nubifragi Zimbabwe e Mozambico e non solo. Limitandoci ai tempi più recenti, oltre alle vittime di questi giorni, non possiamo dimenticare i circa 1000 morti e i 3 milioni di persone lasciate senza riparo, acqua o cibo, e le infrastrutture in condizioni critiche in Malawi, Zimbabwe e Mozambico (credo si ricorderà la “scomparsa” di Beira), nel corso della primavera del 2019, colpiti dai cicloni “Idai” e “Kenneth”, o le 70 vittime della tempesta tropicale “Ana”, tra Malawi, Mozambico e Madagascar a fine gennaio e le centinaia di morti del ciclone “Batsirai” che ha travolto quest’ultimo a febbraio di quest’anno. Come già dimostrato in altra pubblicazione (Fiamingo 2020b: 88 e ss.), lo stillicidio di fenomeni climatici grandi e piccoli, quasi senza soluzione di continuità, oltre agli immediati sensibili limiti d’accesso a riparo e cibo, impediscono la resilienza delle comunità colpite, il che è ulteriormente aggravato dalla portata regionale dei fenomeni che non permette di coordinare strumenti di soccorso con la rapidità e la continuità necessaria, a dispetto dei meccanismi di Disaster Risk Management (DRM) adottati dalla Southern Africa Development Community (SADC).
In un recente meeting tenutosi l’11 aprile scorso, un gruppo di scienziati, denominato World Weather Attribution (WWA) ha nuovamente denunciato la mancanza di una raccolta sistematica di dati (V punto dei “main findings” del Report presentato in questa occasione) che consentano di rispondere in modo scientificamente adeguato al succedersi di questi fenomeni in così alta concentrazione e intensità. Pur esistendo stazioni metereologiche adeguate (in primis in Mozambico), mancherebbe un efficace coordinamento regionale fattuale che si impegni a raccogliere i dati, al fine di permettere alla scienza di monitorarli ed elaborarli altrettanto sistematicamente (Gramling 2022). Eppure, il recente, drammatico peggioramento della siccità che ha colpito il Sudafrica – e città e provincia del Capo, in particolare, nel 2018 (Fiamingo 2018)-, sembrava avere stimolato una certa sensibilità istituzionale in tal senso. A dispetto delle carenze, tuttavia, gli scienziati del WWA hanno tentato di ricostruire i dati per il periodo 1981-2022, evidenziando nel report scientifico l’esasperazione degli effetti a causa dell’intensificarsi dei cambiamenti climatici in atto risalendo alle concause tra emissioni di gas a effetto serra e aerosol.
È dunque chiaro che non si possano più rimandare azioni decise per arginare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici in ogni modo possibile, con una coordinata politica di adattamento ad essi, a partire dal rinforzo di coste marine e argini fluviali, ma anche dalla ristrutturazione di quegli edifici-shelter, come i presidi ospedalieri, che, travolti dalle acque hanno provocato un elevatissimo numero di vittime che avevano cercato là riparo, per non dire dell’edilizia fatiscente destinata ai poveri, costruendo finalmente case che sostituiscano le baracche dei quartieri informali delle mai dismesse township e baraccopoli.
Aspettative già frustrate per i paesi africani da COP27?
Alla luce di questi disastri, si capisce bene come il fatto che la 27ma sessione della “Conference of the Parties” (COP27) della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) sia ospitata dall’Egitto sia foriero di alte aspettative. COP27, infatti sarà ospitata dal 7 al 18 novembre prossimi a Sharm El-Sheikh.
Prima della COP27, sono previste riunioni di medio termine tra Subsidiary Body for Implementation e Subsidiary Body for Scientific and Technological Advice: utili alle parti per far avanzare le discussioni in preparazione dell’appuntamento finale. Inoltre, vengono organizzate settimane di verifica regionale: le Regional Climate Weeks. Si tratta di piattaforme collaborative che offrono opportunità di confronto uniche tra governi e ONG sulle questioni climatiche rilevanti, sotto un unico cappello. La regolarità e la costanza di questi appuntamenti costituisce richiamo continuo al monitoraggio della relazione tra risultati attesi, risultati ottenuti in rapporto alla distanza da coprire rispetto agli obiettivi cui si miri per arginare il cambiamento climatico, in una corsa contro il tempo. Mettendo in evidenza i sacrifici da farsi e, soprattutto, dando atto dei risultati dei progetti intrapresi, soprattutto nel diffondere le “buone pratiche”, a partire dalle istituzioni globali a tal fine istituite, in un certo senso, si promuove un’autoriproduzione dell’impegno votato a una agenda globale condivisa, mentre, al contrario, allentare la tensione riproduce la percezione di una lotta impari di società fortemente atomizzate, in definitiva, impotenti rispetto alla gravità dell’impegno.
Va considerato infatti come COP27 debba segnare un recupero rispetto all’anno “perduto” del 2020, laddove la conferenza era stata rinviata per causa del Covid-19, considerando poi come COP26, celebrata a Glasgow nel novembre 2021, abbia piuttosto deluso per il mancato raggiungimento di alcuni obiettivi che ci si era posti, soprattutto per quanto attiene alle sovvenzioni necessarie ai Paesi terzi ed emergenti per ridurre le emissioni e per passare alle fonti energetiche “verdi”: sovvenzioni e aiuti che ci si aspetta provenire soprattutto da parte dei Paesi ricchi.
Ecco che, rispetto al tema di nostro interesse, sono di grande importanza la conferenza regionale di medio termine per l’Africa, ospitata dall’Uganda, che si è svolta a fine settembre, in vista di COP26, la cui nuova sessione in vista di COP27 non è ancora stata programmata, e quella della MENA (Middle East and North Africa region), che si è tenuta l’ultima settimana di marzo: assai attesa, dato che, appunto, la 27ma sessione della COP si svolgerà in Egitto.
Sulla scorta della prima, Jean-Paul Adam, Director of Technology, Climate Change and Natural Resources Division dell’ECA ha scritto, per la rivista delle Nazioni Unite African Renewal, “5 ways Africa can prepare for COP27”, lo scorso mese di dicembre, includendo opportunamente nella sua disamina e nelle sue raccomandazioni gli effetti della pandemia, a fianco delle misure necessarie a mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Adam ha mirabilmente sintetizzato come entrambe queste severe prove per l’umanità, alla riprova, poi, di COP 26, abbiano rivelato non solo i limiti del multilateralismo – tra l’assenza di una effettiva volontà politica e la condanna a muoversi al ritmo dei Paesi più recalcitranti – ma anche come siano state ulteriormente rafforzate le disuguaglianze nello sviluppo internazionale. Ha evidenziato, infatti, come, in risposta alla pandemia di COVID-19, i paesi del G20 abbiano mobilitato oltre $ 11.000 pro capite, mentre per i paesi a basso reddito la spesa pro capite sia stata in media di soli $ 57, laddove, in un paese africano, la spesa è stata di soli $ 11 pro capite. A fronte del compromesso di Glasgow a che l’opzione multilaterale rimanga praticabile, pur nella consapevolezza dell’incapacità di rispondere all’urgenza richiesta dalla crisi climatica, Adam plaude all’ostinazione dei paesi africani che, attraverso l’African Union’s Green Recovery Action Plan, rinfocolano le loro ambizioni a dispetto di finanziamenti esterni non disponibili, il che gli fa esprimere la raccomandazione che un’azione reale per la COP27 debba essere costruita dall’interno degli stessi paesi africani (Adam 2021).
Quanto alla UN Middle East and North Africa (MENA) climate conference, che si è tenuta a Dubai nel corso dell’ultima settimana di marzo, ha forse messo già in evidenza ulteriori limitazioni cui si va incontro. La scelta dell’Egitto da parte del Gruppo Africano, quale ospite della COP27, è quantomeno controversa: non solo per le note attitudini liberticide (non va dimenticato che un’organizzazione legittima un Paese e i suoi comportamenti ogni volta che lo coinvolga direttamente e in ruoli di tale importanza), ma per l’atteggiamento stesso del Paese nei confronti della problematica che COP27 dovrà affrontare. Un sondaggio Ipsos Mori del 2020 circa la consapevolezza dei cambiamenti climatici, aveva rilevato nei Paesi MENA come questa sia inferiore in Egitto rispetto a tutti gli altri Paesi della regione. Soltanto di recente, e di conseguenza rispetto a tale scelta, abbiamo sentito l’Egitto promettere di fare di resilienza e adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici una priorità e di cooperare con l’Inghilterra – sede di COP26 – per questo. Eppure, successivamente alla presentazione dell’Action Plan del 2011, risale al 2017 il piano climatico presentato dall’Egitto alle Nazioni Unite in cui denunciava la propria vulnerabilità alle ondate di calore, alle inondazioni e alla scarsità d’acqua, pur senza quantificare un obiettivo in termini di riduzione delle emissioni. E questo nonostante i Paesi si fossero impegnati ad aumentare l’ambizione dei rispettivi piani climatici entro il 2020, assecondando quanto espresso dall’accordo di Parigi del 2015. L’Egitto sembra ancora inadempiente, sotto questo profilo, sebbene non si possa certo negare preventivamente che da questa investitura possa emergere una nuova responsabilizzazione.
La conferenza di medio termine, a dispetto degli entusiastici toni del sito ufficiale, non sembra davvero aver dissipato i legittimi dubbi che emergono da queste constatazioni e dall’attitudine alla lamentela piuttosto che ad intraprendere coraggiosi piani d’azione. Da un articolo estremamente duro del The Times of Israel (Surkes 2022)- che, riportando le condivisibili critiche degli emissari israeliani presenti, non risparmia scetticismo circa il metodo di una conferenza organizzata in panel che non comunicano fra loro -, si evince, infatti, come si sia ancora arenati nella fase di descrizione delle problematiche piuttosto che pronti ad avanzare nell’azione.
Non va poi dimenticata la situazione di guerra in cui ci troviamo: al di là delle nostre aspettative frustrate rispetto a tutti gli appuntamenti precedenti, alle note “pressioni” cui è sottoposto l’ambiente in questo Pianeta e a Covid-19 non ancora “endemizzato”, si sono aggiunti infatti i devastanti effetti di breve, medio e lungo periodo della guerra in Ucraina, in ogni angolo del globo, innanzitutto – ma non solo -, a causa della diversificazione degli approvvigionamenti energetici necessari al mantenimento di un certo livello di crescita, richiesto poi dall’avocata ripresa economica post-pandemica e del previsto rinvio delle politiche di riduzione dello sfruttamento del carbone per ridurre la dipendenza dal gas russo. Mentre, sullo sfondo, giganteggia la drammatica portata della corrente riduzione delle importazioni di grano e cibo in Africa che si rifornisce principalmente dall’est dell’Europa.
I costi delle strategie di adattamento al climate change e i progetti per arginarli
L’Africa deve reinvestire in sé stessa, e nei diversi settori, per garantire una qualità di vita dignitosa a tutti i propri abitanti, riducendo al possibile, sul fronte esterno, la dipendenza dagli aiuti internazionali, che non la renderà mai un continente completamente emancipato. Il vantaggio, in termini di fiducia – elemento cardine in materia economica -, che l’Africa sta maturando nel consolidamento dell’Africa Continental Free Trade Area, sembra ridursi anche a causa di una diseguaglianza economica interna ai Paesi africani che è ulteriormente aumentata per gli effetti della sindemia e dei vari lockdown applicati e per le difficoltà d’accesso al cibo, ma anche per la contrazione delle migrazioni. Sebbene fosse complessivamente diminuita la povertà estrema per effetto della globalizzazione e della circolazione delle rimesse che le migrazioni han garantito, infatti, la contrazione che pure il sistema migratorio e sue conseguenze dirette han subito devono ancora essere adeguatamente computate.
L’African Development Bank Group, lo UN Environmental Programme (UNEP), e la UN Economic Commission for Africa (ECA) hanno licenziato una fondamentale pubblicazione, nel 2019: «Climate Change Impacts on Africa’s Economic Growth» (Baarsch e Schaeffer 2019). Questa, coordinata da Florent Baarsch (economista che, presso World Bank e l’agenzia ONU IFAD – International Fund for Agricultural Development – si occupa di formazione dei quadri amministrativi per far fronte al cambiamento climatico) e da Michiel Schaeffer (Univ. Utrecht e consulente di Climate Analytics), ha dimostrato i costi delle correnti e auspicabili azioni da intraprendere avverso il climate change, ammonendo circa i costi dell’inazione, in uno scenario temporale che si estende fino al 2050. La misurazione dell’impatto su scala regionale e in termini di PIL pro-capite è davvero efficace nel dimostrare come i costi diretti e indiretti dell’azione sui cambiamenti climatici inciderebbero positivamente e come, al contrario, i costi dell’inazione sarebbero decisamente molto più elevati alti e negativi. Una efficace proiezione, nel sintetizzare scopi e conclusioni del report, ammonisce che senza politiche pianificate di adattamento ai cambiamenti climatici, l’Africa occidentale e orientale potrebbero perdere fino a ca. il 15% del loro PIL, entro il 2050, mentre gli sforzi globali verso uno scenario a basse emissioni e a basso riscaldamento, auspicati dall’Accordo di Parigi, potrebbero evitare gravi conseguenze e importanti rischi economici, sociali e di sviluppo umano all’Africa, per se vulnerabile sotto qualsiasi livello di riscaldamento ulteriore si concepisca. Le azioni sui cambiamenti climatici nella mitigazione e nell’adattamento saranno premiate da benefici diretti e collaterali significativi in termini di stabilità macroeconomica, oltre ad annientare progressivamente i temuti limiti allo sviluppo, con la creazione di posti di lavoro. Mitigare le emissioni nel settore energetico africano si tradurrebbe in 0,7 milioni di posti di lavoro potenziali netti nel 2030, che in seguito potrebbero aumentare addirittura a 11,8 milioni di posti di lavoro entro il 2050 (Baarsch e Schaeffer 2019).
D’altro canto, oltre a posizioni avveniristiche, impensabili addirittura per la maggior parte dei Paesi del Nord globale, come l’inserimento della “Natura” quale soggetto di diritto nell’ordinamento dell’Uganda (Nocera 2021), esistono efficaci progetti esperiti in Africa (co-finanziati da organizzazioni e centri di ricerca internazionali, da organismi regionali, come l’Unione Europea e non solo), la cui riproducibilità, declinata a seconda delle diverse esigenze, è incontrovertibile e che, fosse resa sistemica e sistematica, col coordinamento delle informazioni e degli scambi nella ricerca da parte degli organismi internazionali, sarebbero di vantaggio per l’intera compagine globale.
L’agenzia UN Environment Programme (UNEP) ha creato una pagina web per rendere visibili alcune buone pratiche in corso in Africa: «In Pictures: How Africa is using nature to adapt to climate change». Vi si descrivono programmi noti (come il progetto della Great Green Wall Initiative che ambisce beneficiare trasversalmente l’Africa saheliana e immediatamente subsahariana) e meno noti. Ma ci sono anche progetti di coordinamento tra università e pubblica amministrazione finalizzati alle migliori soluzioni operative per l’adattamento ai cambiamenti climatici in contesti endemicamente vulnerabili che costituiscono felici esempi da imitarsi anche nel global North. Ho avuto modo di assistere alla dimostrazione dell’efficacia di progetti come Future for Africa Climate e i suoi 5 team di ricerca internazionale transdisciplinare, e, in particolare, di FRACTAL: Future Resilience for African Cities and Lands, con base in Sudafrica, che potrebbe ben essere trasferito in Europa. Si tratta della migliore esemplificazione del modello di problem-solving del “quintuple helix” cui abbia assistito. Questo modello aggiunge la dimensione ambientale ai precedenti modelli: al primo, basato su reti relazionali trilaterali e organizzazioni ibride tra università, industria e pubblica amministrazione, incrociato tra metodologie della conoscenza e inter- e trans-disciplinarità (triple helix) e a quello successivo (quadruple helix) che vi ha aggiunto la società civile e pubblica, includendovi la dimensione culturale. L’universalizzazione di tali conquiste (che implicano dedizione e investimenti di vite oltre che di denaro, con la formazione di nuove competenze, expertise e posti di lavoro, in funzione dei bisogni del Pianeta) farebbe meglio capire l’esistenza effettiva di una politica globale e di come ogni sforzo, in coordinamento con gli altri, concorra al miglioramento dell’esistente e possa essere foriero di nuove idee e spazi lavorativi, laddove la dimensione stessa del lavoro è una altra variabile fortemente in crisi a livello globale.
La questione del coordinamento del rapporto sinergico, multimodale, costantemente riaggiustato su successi, fallimenti, incongruenze è essenziale. Dai fallimenti a volte si impara più che dai successi, anche per la banale constatazione che certi progetti applicati a determinate coordinate geografiche, potrebbero non essere applicati ad altre. Quante volte vediamo enunciati mirabolanti iniziative e poi non ne sappiamo più nulla? Ricordo, sulla scorta di COP26, un interessante articolo di Mariella Bussolati su Repubblica, del 4 novembre 2021: “Piantare mille miliardi di alberi? Ecco perché è una toppa peggiore del buco” (Bussolati 2021) in cui ha annoverato i molteplici fallimenti dell’invocata riforestazione del pianeta e gli effetti più deleteri di politiche irrealistiche e accelerate. Senza insistere sulla necessità di imbricare interventi complessi aggiustati gradualmente, i rischi di politiche intraprese pedissequamente non sono solo quelli di produrre grandi sprechi, ma, quel che è peggio, di ingenerare sfiducia. Per questo, il coordinamento e l’onesta ammissione degli errori fatti potrebbero essere la formula vincente.
Certo, tra le restituzioni dovute a questo continente, per lo sfruttamento continuo che subisce senza soluzione di continuità e per il salvagente che garantisce al Nord globale (anche nella corrente crisi russo-ucraina), occorrerebbe quantomeno una condivisione di responsabilità nel cooperare in partnership a che là, dove siano maggiori i rischi e ripetute le sue manifestazioni avverse, si intervenga con il rafforzamento tecnologico necessario e relativo know-how che permetta l’adattamento e un rallentamento degli effetti del cambiamento climatico, garantendo uno scambio costante fra i continenti a livello di ricerca (Nord-Sud e Sud-Sud) senza porre barriere di sorta: le lungaggini burocratiche per assicurare i visti ai colleghi africani, facendo loro perdere tante opportunità di scambio, sono ricorrenti nella narrazione dell’accademia occidentale, rendendo la retorica dell’accoglienza nulla più di questo. Purtroppo, quel che declamiamo essere universale (come l’universitas studiorum in cui “milita” chi scrive) non lo è quanto dovrebbe e obbedisce ancora a logiche di confine e nazionali, assecondando le fonti di finanziamento, mentre ci sono straordinari modelli da imitare a livello transnazionale, che, ovviamente, richiedono investimenti costanti e non soggetti ad oscillazioni e a politiche se non a reazioni “di pancia”. Se si pensa a come nuovamente, alle nostre coordinate, a vantaggio delle politiche militari si stia tornando indietro di decenni per il finanziamento alla ricerca scientifica e alla scuola, non si può che essere pessimisti.
Approvvigionamento energetico: tra promesse di crescita e plausibile impegno ridotto sul versante del cambiamento climatico
I viaggi di premier e ministro degli esteri italiani verso Congo, Algeria ed Egitto, in queste ultime settimane, fanno legittimamente temere che i grandi esportatori di combustibili fossili possano boicottare gli sforzi verso un impegno effettivo nei confronti degli obiettivi di COP27 e la transizione ecologica necessaria. Si consideri infatti come le speculazioni sul prezzo di gas e benzina, ancora precedenti la guerra, abbiano fatto sentire in modo drammatico i loro effetti ovunque, ma con maggiore impatto nei paesi poveri, incidendo su produttività e lavoro. La corsa agli approvvigionamenti energetici da parte europea di queste settimane non rendono favoriti i pronostici del contrario. Addirittura, l’ipotesi di un ritorno al carbone è stata ventilata da più parti: pur indotta dall’emergenza, si intraprendesse anche temporaneamente questa via, si darebbe un duro colpo alle politiche concordate nel corso di COP26. Si pensi all’accordo di partenariato di transizione energetica a lungo termine concluso tra Sudafrica, Francia, Germania, Regno Unito e USA che, insieme all’Unione europea intende sostenere gli sforzi di decarbonizzazione del Sudafrica (GOV.UK 2021).
Pur ciò paventando, se, giocando con le citazioni, “a pensar male ci si azzecca sempre”, dobbiamo anche “agire come se si avesse fede” e sostenere i movimenti della società civile – soprattutto giovanili, perché è del presente, ma soprattutto del futuro di questo Pianeta che si sta parlando – a che sia responsabilizzata la compagine dei vertici della Terra a offrire meno “chiacchiere” e maggiore perizia diplomatica che tenga in considerazione più che la sicurezza degli stati, la sicurezza umana: oggi più che mai a rischio. Questa è imperativamente indispensabile – come la portata della “sorpresa” bellica, scoppiata ai confini dell’Europa ci dimostra – e si deve basare sulle competenze della complessità dei quattro angoli del Mondo, nella piena consapevolezza delle responsabilità in gioco: questa intricata articolazione transdisciplinare, cui, per estensione, darei il nome di “planomia” – mutuando una felice intuizione di Paolo Ricotti, e abbracciata da Planet Life Economic Foundation – non può avere che molteplici expertise rigorosamente internazionali, mentre anche l’economia fa la sua parte, laddove cresce ovunque, e certamente anche in Africa, la green economy, come ho potuto constatare anche attraverso la vetrina sull’imprenditoria africana che annualmente si esperisce in Italia con IABW: Italia Africa Business Week.
Questo mondo globale si fonda sui rapporti d’interfaccia e l’aspettativa è che anche laddove certe prospettive vengano adottate solo di facciata, la crescente consapevolezza “dal basso” della necessità che la categoria della “sostenibilità”, non sia una scatola vuota e come si debba rispondere gli uni agli altri della propria inadeguatezza nel farvi fronte, si tramuti in pressione politica per una accelerata adozione di misure concrete. Quel che ci manca è, infatti, il tempo. Ci si concentrasse su questo, l’umanità avrebbe già un gran daffare senza perdere tempo in autoaffermazioni identitarie che sono effimere e peggiorative dell’assetto globale, il cui orologio ticchetta il suo countdown.
Ovviamente vanno pure considerate le opportunità che si aprono e gli interessi particolari determinati e sollecitati dalle crisi contingenti: per Egitto, Angola, Repubblica democratica del Congo, Algeria e, ovviamente, anche per la Libia, le opportunità che si aprono in questa congiuntura sono notevoli: posseggono ricchezze minerarie ed energetiche più che considerevoli, ma una forte disparità redistributiva caratterizza questi Stati. Abbiamo raggiunto il livello più alto in termini di condivisione globale di concezioni elevate quali i diritti umani e la loro avocata universalità, o di competenze in merito agli equilibri dei contesti antropici che allontanino lo spettro dei conflitti a vantaggio della cooperazione per un modo sostenibile: che gli squilibri demografici ed economici facciano buon gioco alle politiche di sfruttamento è ormai opinione condivisa e incontrovertibile. Si sono spesi fiumi di inchiostro ed esperite svariate forme di comunicazione perché questa consapevolezza maturasse e i quadri normativi di numerosi Paesi si stanno aggiustando da tempo su tali assunti (sebbene non in modo uniforme e talvolta tornando sui propri passi) mentre, per lo più, la politica scende a continui compromessi, assecondando, di crisi in crisi, agende particolari.
Alla fin fine, insomma, per quanto controversa sia, oggettivamente, la scelta di ospitare in Egitto COP27, si ha sempre la speranza che l’investitura quale Paese ospitante una simile manifestazione acceleri l’adeguamento alle promesse fatte nei consessi internazionali precedenti e questo potrebbe estendersi a tutta la regione anche in vista di COP28 che dovrebbe essere ospitata dagli Emirati arabi.
Che non sia il mero timore delle migrazioni dal Sud globale la spinta a salvare il Pianeta
In modo sempre più ricorrente viene manifestato il timore che i cambiamenti climatici esperiti con tanta sofferenza in Africa siano di stimolo ad una fuga ancora maggiore del presente rispetto all’ “exit option” delle migrazioni transcontinentali verso l’Europa (Hoffman 2008). Lo “spauracchio” non dovrebbe essere certo le migrazioni che sono percepite come temibili solo per la cattiva gestione che se ne fa e, soprattutto, che si è esperita a oggi, laddove una strategia di “contenimento” non significa certo mero “controllo” dei confini, ma una complessa gamma di relazioni politiche ed economiche, in una vision globale di ampio respiro che, fino ad oggi, la maggior parte degli Stati del Nord ha disatteso, reagendo in ottica difensiva. Si pensi alla riconversione dei fondi di sviluppo europei destinati all’Africa in funzione di detto contenimento, per esempio (Pallotti 2018). Di fatto, ogni ora e ogni centesimo sottratto a un tale impegno è un enorme spreco – rigorosamente nell’ordine – di vite umane, di energie e, in definitiva, di denaro, oltre ad essere evidente volano del malaffare. L’impegno ad annichilire le cause che rendono le migrazioni “forzate” è eccessivamente atomizzato: siano esse guerre, gli effetti del cambiamento climatico, l’insofferenza politica per le più disparate limitazioni delle libertà o il disagio economico, spesso generato dai primi tre, non possono essere contrastate coi respingimenti che non fanno che mettere in evidenza la volontà di deresponsabilizzazione del Nord verso il Sud globale, per non dire della solidarietà diversificata nei confronti delle vittime delle guerre, che ha raggiunto livelli assolutamente imbarazzanti, ultimamente, alle nostre latitudini. Così non si fa che esasperare il profondo senso di ingiustizia che consegue contribuendo a rendere, di conseguenza, ancora più disperata la lotta per la sopravvivenza.
La gravità e l’urgenza dei fenomeni conseguenti nascono dal fatto che il rinvio di questi temi è costante, che tutte le scuse vengano trovate per tutelare gli haves rispetto agli have nots ed evitare il sacrificio da parte di chi goda del benessere (in entrambi gli emisferi) e non importa per quanto, evitando stoltamente di dare la giusta spinta agli investimenti con logica redistributiva e assicurando lo scambio scientifico a che l’avanzamento produttivo e tecnologico siano di effettivo beneficio per l’intero pianeta. Ci si fosse mossi per tempo, il benessere condiviso e la vivibilità nel suo senso più pieno, con il suo apporto valoriale e di dignità (così come la si intende nella versione inglese del vocabolo: livelihood), avrebbe di fatto ridotto da tempo la vulnerabilità dei contesti antropici più esposti rispetto ai cambiamenti climatici, con l’effetto, tra l’altro, anche di calare e grandemente la pressione demografica che si vive oggi negli emisferi Sud, riequilibrando gli altri fenomeni concorrenti che esasperano il rapporto fra uomo e territorio, come l’urbanizzazione. E da questo punto di vista è un gran bene che si punti l’obiettivo su questi contesti vulnerabili, col riesperire in Africa la COP.
Sebbene sin dal periodo successivo alla II Guerra mondiale si ragioni su questi temi, da quando sono state costruite le arene internazionali preposte a discuterne, è maturata a metà degli anni ’90 l’esigenza di circoscrivere i complessi fenomeni che determinano la vulnerabilità delle società, al fine di individuare i responsabili della loro soluzione e c’è una pubblicazione cui guardare: lo UN Development Report del 1994 (UNDP 1994). Forse, sapere che, nel folto gruppo degli economisti che l’han redatto, spicca il nome di Amartya Sen, giova nel comprenderne la filosofia. Vi si sviluppa, infatti, la concezione di sicurezza umana, i fenomeni originati dalla sua assenza (vulnerabilità) e alcuni percorsi possibili per assicurare livelihood agli Umani a partire dall’individuazione dei responsabili, in quanto già da allora si era fatto evidente come la responsabilità di tutti non sia la responsabilità di nessuno. Vi si ascrive agli Stati la responsabilità a che ogni individuo goda delle sette sfere di sicurezza umana assicurandone l’accrescimento personale, economico, sociale, politico, ma anche garantendo all’individuo il diritto ad un ambiente sano e d’accesso a sanità e cibo, che, di fatto, è un modo articolato di imputare agli Stati la tutela dell’individuo nell’esercizio delle più difficili da tutelare delle quattro libertà della dottrina Roosvelt: le libertà dal bisogno e dalla paura (oltre a quelle d’espressione e religiosa). Quella pubblicazione del ‘94 – che di fatto è la prima che, in modo articolato e a vocazione universale, descriva i doveri degli Stati e, per la proprietà transitiva, degli organismi internazionali di cui volontariamente tali Stati fanno parte – avrà un senso nel momento in cui la “società globale” si riconosca negli assunti che quel documento esprime e faccia pressione sui rispettivi Stati perché siano rispettati. Sapere è sempre una responsabilità.
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Cristiana Fiamingo è docente di Storia e Istituzioni dell’Africa, presso l’Università degli Studi di Milano dove coordina il CRC SHuS – «Sustainability and Human Security» e, da tre anni, il Laboratorio interdisciplinare interfacoltà «Sostenibilità e sviluppo sostenibile», attualmente in corso.
L’A. desidera ringraziare i colleghi Roberto Cammarata e Angela di Gregorio per l’attenta lettura e i suggerimenti che hanno contribuito a migliorare la proposta iniziale.
Riferimenti
AA Energy (2021, 16 gennaio) UK, “Egypt vow to cooperate to fight climate change”.
Adam J-P. (2021, 6 dicembre)“5 ways Africa can prepare for COP27”, UNAfrican Renewal.
Al Jazeera (2022, 18 aprile), “South Africa flood toll rises to 443; dozens still missing”.
Baarsch F. e Schaeffer M. (2019), Climate Change Impacts on Africa’s Economic Growth, ADB, UNEP e UNECA.
BBC News (2022, 18 aprile), “KwaZulu-Natal floods: South Africa army sends 10,000 troops”.
Bussolati M. (2021, 4 novembre), “Piantare mille miliardi di alberi? Ecco perché è una toppa peggiore del buco”, Repubblica.
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