“LA COLLINA CHE SCALIAMO”: L’ONESTO JOE BIDEN SULLE SPALLE DI ABRAHAM LINCOLN

“THE HILL WE CLIMB”: HONEST JOE BIDEN ON ABRAHAM LINCOLN’S SHOULDERS

di Marco Sioli*

Photo by Andrew Harnik

The reflection on Joe Biden’s speech for the inauguration of his Presidency, move us to consider his long relation with the history of the United States. Quoting George Washington, Abraham Lincoln and Martin Luther King, he refers explicitly to the danger of white supremacy, and the problem in a divided society along color line as well as class line. Differently from Barack Obama, who certainly is a better speaker, Joe Biden offers his image of “Honest Joe” distant from Donald Trump’s misogyny and dystopia, but really interested in addressing the question of how to find a solution for a “house divided” in time of peril, as “Honest Abe” did during the Civil War. Also the choreography of the event, with famous artists singing “Amazing Grace” and the “National Anthem”, finally brings us to a young black girl, Amanda Gorman, a poet laureate, offering to a world-wide public her story: the slave ancestors, the trouble to grow up with a single mother in Los Angeles, and the terrific words of her poem “The hill we climb”.

Un discorso forte quello che Joe Biden ha pronunciato durante la cerimonia di insediamento del 20 gennaio 2021. In un mall di Washington freddo ma assolato, addobbato con migliaia di bandiere a stelle e strisce ma privo di folla a causa della pandemia che a più ondate continua a colpire gli Stati Uniti, “Honest Joe” (Joe l’onesto) ha volato alto, pur senza avere le abilità retoriche di Barack Obama, per smentire il nomignolo che gli era stato affibbiato da Donald Trump in campagna elettorale: “Sleepy Joe” (Joe il dormiente). Una simile onestà aveva caratterizzato anche le figure che Biden ha scelto di estrarre dal cilindro della storia americana – George Washington, Abraham Lincoln e Martin Luther King – e che oggi figurano in ritratto o in scultura presenti nello Studio Ovale, accompagnati al quadro di Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, colui che più di tutti ha promosso la scienza nell’America settecentesca, e al busto di Cesar Chavez, insieme a Mother Jones, uno dei più famosi attivisti sindacali nella storia degli Stati Uniti. Un pantheon che ha sostituito il ritratto del controverso presidente Andrew Jackson che solitario compariva nello Studio Ovale di Trump.

Un discorso, come scrive Mario del Pero, “pragmatico, onesto e chiaro. Con nessuna concessione al lirismo. Lontano anni luce sia da quelli – dotti e sermonici – di Obama sia da quello – cupo e distopico – di Donald Trump”. Ma se gli iniziali richiami all’unità politica ci sono parsi senza fondamento, dopo aver visto lo stesso balcone scalato da una folla urlante il 6 gennaio che ha invaso le stanze del Congresso, la riflessione sul suprematismo bianco e il razzismo si è configurata come uno dei passaggi più coraggiosi del suo discorso. Due i pilastri dunque: George Washington, il fondatore dell’Unione americana, e Abraham Lincoln, colui che è riuscito a difenderla durante gli anni difficili della Guerra civile. Proprio l’uso politico di Lincoln ci ha riportato a un altro freddo gennaio a Washington. Quello del 1863 quando “Honest Abe” firmò il Proclama di Emancipazione degli schiavi.

Due pilastri che hanno gestito momenti difficili per la democrazia americana come lo è quello attuale. Come loro, Biden ha fatto appello al patriottismo progressista che era stato di Frederick Douglass, come mi è accaduto di osservare nell’ultimo numero di Nuovi Autoritarismi e democrazie (https://riviste.unimi.it/index.php/NAD/article/view/14523). Come loro ha giudicato incivili le proteste che impedivano la realizzazione dell’esperimento statunitense provocando una guerra civile che nelle parole di Biden è diventata “una guerra incivile”. Oggi come ieri questa democrazia è vulnerabile e ancora fragile, a causa delle bugie che condizionano l’opinione pubblica e delle verità alternative che oggi chiameremmo fake news. “Ma la democrazia ha prevalso anche questa volta” ha detto Biden “perché la Costituzione è resiliente e la nazione è forte”. “Il sorgere dell’estremismo politico, il suprematismo bianco e il terrorismo interno” ha continuato il Presidente, sono i problemi riemersi recentemente e “noi dobbiamo confrontarci con essi e li sconfiggeremo”.

Quello di Biden non è stato un discorso rivolto solo agli americani ma al mondo intero, facendo così riacquistare agli Stati Uniti un ruolo leader di potenza mondiale che in quanto tale deve prendersi cura “del grido di sopravvivenza che giunge dal pianeta stesso. Un grido che non può essere più disperato e più chiaro”. Non ascoltarlo sarebbe un errore per la sua Amministrazione. Eccoci dunque a lasciare le belle parole del discorso per considerare il pragmatismo con cui Biden ha già iniziato a gestire le eredità del trumpismo. Una filosofia politica complessa che, come scrive Arnaldo Testi, è “quello di vertice e quello popolare”. Un trumpismo che lascia “un governo a pezzi e una opinione pubblica avvelenata e divisa, le inchieste sul background del 6 gennaio e ciò che resta del processo di impeachment, un ex Presidente che se ne va ignorando il successore, lui e famiglia facendo le valigie con malagrazia, e sbattendo la porta”. Ma soprattutto Biden deve gestire l’emergenza sanitaria più grave da un secolo a questa parte e la recessione economica che ne è derivata.

Come un raggio di speranza, come “gli angeli migliori” della nostra natura, citati sia da Lincoln sia da Biden, è apparsa sul palco una ventiduenne di Los Angeles, Amanda Gorman, una poetessa laureata che ha seguito altri esempi più illustri che hanno accompagnato la cerimonia di inaugurazione a partire da quella di John Fitgerald Kennedy nel 1960, che volle iniziare questa che ormai è una tradizione con le rime del poeta Robert Frost. La giovane afroamericana ha recitato alcune rime composte proprio dopo l’attacco della folla minacciosa e illetterata al Campidoglio del 6 gennaio. Il poema è intitolato “The Hill We Climb” e manda un messaggio profondo di unità e speranza per il futuro degli Stati Uniti. “Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine? – ha scandito con voce limpida Gorman – “La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guadare./Noi abbiamo sfidato la pancia della bestia./Noi abbiamo imparato che la quiete non è sempre pace,/e le norme e le nozioni di quel che semplicemente è non sono sempre giustizia./Eppure, l’alba è nostra, prima ancora che ci sia dato accorgersene”.

FONTI

  • J. Biden, Papà fammi una promessa. Un anno di speranza, sofferenza e determinazione, NR Edizioni, Pescara, 2021.
  • M. del Pero, “Il discorso inaugurale di Biden”, in ItalianiEuropei, 21 gennaio 2021 al sito https://mariodelpero.italianieuropei.it
  • Isabela Diaz, “Poet Amanda Gorman Won the Inauguration”, Mother Jones, 20 gennaio 2020, al sito https://www.motherjones.com/politics/2021/01.
  • M. Sioli, “Democrazia, schiavitù e razzismo negli Stati Uniti. Da Frederick Douglass a Black Lives Matter”, in NAD. Nuovi autoritarismi e democrazie, 2 (2020), pp. 44-66.
  • N. Sioli, Abraham Lincoln. Le parole, le politiche e l’uso politico, Ibis, Como-Pavia, 2018.
  • A. Testi, “Appunti. L’amministrazione Biden-Harris, rooseveltiana e populista”, 20 gennaio 2021 al sito https://shortcutsamerica.com/

* Professore associato di Storia dell’America del Nord, Università degli Studi di Milano.

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