Evo Morales, su caída y los mitos de occidente

EVO MORALES, LA SUA CADUTA E I MITI DELL’OCCIDENTE

traduzione a cura di Laura Alessandra Nocera*

(dall’articolo Evo Morales, su caída y los mitos de occidente di Pedro Portugal Mollinedo, pubblicato su Pukara n.161/2019, pp.3-4)

Gli avvenimenti recenti in Bolivia si sono guadagnati analisi e commenti da parte della stampa e delle reti sociali internazionali, con qualificazioni e previsioni molto più taglienti e allarmiste rispettto a quanto si puù leggere nella stessa Bolivia.

Ciò è dovuto, in gran parte, al fatto che colui che ha perso il potere in questo paese, Evo Morales, è di origine indigena.

Nel mondo occidente è stato costruito un mito sulla “indigenità” che contraddice i concetti costruiti precedentemente nella medesima parte del mondo. Tutto il mito sociale svolge la sua funzione in chiave economica e politica. Visto che il mito proviene dal colonizzatore (o dal neo-colonizzatore), sicuramente la sua diffusione ha una relazione con il mantenimento del dominio e non con la liberazione di coloro che vengono così identificati.

L’Europa e coloro che ne hanno divulgato nei nostri paesi le idee hanno costruito diversi miti nrlla sua relazione storica con coloro che sono chiamati “indios” in America. Anzitutto, si trattava di popoli selvaggi, pagani, privi di civiltà; poi, arretrati e poco sviluppati; infine, in via di sviluppo in alcune zone geografiche. Attualmente, i miti sono diventati più adulatori, ma non meno pericolosi. In Occidente, vige la moda di elogiare i popoli primitivi come unici portatori della verità che il vile occidentale non è in grado di percepire e che si esprimono in una cosmovisione in cui l’elemento umano si subordina a quello naturale, cosa che rende l’indigeno maggiormente rispettoso dell’ambiente e della condivisione e comunione con tutti gli elementi naturali, incluso con i miseri parassiti di Madre Natura.

Questi miti sono serviti solo per risolvere in modo illusorio il complesso senso di colpa del mondo occidentale e condizionano erroneamente la realtà sociale e politica di questa parte di mondo, visto che tendono necessariamente a rifugiarsi nella metafisica e che ovviano l’analisi di problemi storici e sociali contemporanei.

L’invasione europea a partire dal 1492 ha dato origine alla colonizzazione, intesa non come una questione di comprensione dell’alterità, ma come la più grande usurpazione di un potere politico. Da questo momento, infatti, gli indigeni furono privati del potere politico e di tutta la propria autonomia nel condurre i propri affari. Questa è la realtà della colonizzazione e per questo motivo storicamente la vera decolonizzazione è avvenuta con l’autodeterminazione e l’indipendenza dai vecchi colonizzatori.

Per ragioni che non sia ha modo di approfondire nel presente articolo, in America non si mai realizzata effettivamente questa decolonizzazione storica. L’intento attualmente chiaro in Bolivia è il riferimento alla guerra di Tupak Katari nel 1781. Ragione per la quale questo movimento e, in particolare, la figura del suo leader continuano ad essere emblematiche in questo paese. In America sono avvenute le cosiddette “guerre di indipendenza” che hanno creato gli Stati attuali nel continente e hanno imposto il modello repubblicano e, con esso, la supremazia dei creoli, i figli dei colonizzatori spagnoli, e successivamente dei mestizos.

Nel nuovo modello non è stata prevista la formazione di una nuova identità nazionale integrata dalla componente indigena, ma si è riproposta la segregazione coloniale spagnola, a volte aggravandola.

L’élite creola al potere instaurò una società basata sulla razza (intendendo il “razzismo” come la credenza che esistano differenze biologiche essenziali tra gli esseri umani, la “razializzazione” è la costruzione di ruoli sociali a partire da questo pregiudizio). Le istituzioni statali e il potere politico furono così fondamentali nell’integrazione indigena che portarono alla collocazione degli indigeni all’ultimo gradino di una società divisa in caste, prima che in classi, e l’uso dell’ideologia per giustificare e perpetuare questa divisione è ingiusta.

A livello della giustificazione ideologica, il creolo ha utilizzato tutte le idee provenienti dall’Occidente, a volte snaturalizzandoli secondo i propri interessi. Così è accaduto con la religione cristiana, con il liberalismo, con il socialismo e, nei tempi recenti, con la culturalismo postmoderno.

In tutti i paesi del continente, l’ideologia dominante in campo accademico è quella del culturalismo postmoderno e tutte le sue applicazioni a livello statale si rivolgono alla cultura indigena ravvisandone in essa la fonte d’ispirazione, che è, al tempo stessa, anche ispirazione delle agenzie di cooperazione internazionale. La cosa particolare della Bolivia risiede nel fatto che questa idea è stata riassunta nell’elezione di un presidente indigeno, cosa che ha portato molti indigeni a credere che si trattasse dell’applicazione delle politiche indigene attraverso la formazione di un vero governo indigeno. Da qui la confusione nell’analisi di ciò che sta succedendo in Bolivia e che destabilizza la maggior parte dei commentatori stranieri.

Questo errore genera divari nell’analizzare ciò che accade in questo paese. Solo come esempio, prenderò in prestito le parole di Thierry Meyssan nel suo articolo “La Bolivie, laboratoire d’une nouvelle stratégie de déstabilisation”.

Questo autore crede che ” la nomina di un nuovo governo senza presenza indigena ha spinto gli indigeni ad occupare le strade al posto di coloro che si ribellavano contro il governo di Morales”. Mentre gli indigeni stavano combattendo in strada, il nuovo governo veniva composto unicamente da “bianchi”. Qualche curioso che ha avuto a che fare con almeno un mezzo di comunicazione sa, al contrario, che l’attuale governo ha incluso componenti indigeni nel suo gabinetto, anche se non ha predisposto alcuna valida strategia, e che ha mantenuto intatto l’abilità di concertare con le organizzazioni sociali – COB, CSUTCB, Patto di Unità, Interculturales, Ponchos Rojos… – che, prima erano ritenuti esclusivi alleati fino alla morte del governo di Evo Morales. Per altro verso, il gruppo di deputati e senatori del MAS – ora che la predominante indigena e creola che governan realmente la Bolivia è in fuga, rifugiata nelle ambasciate o in esilio dorato – ha finalmente accettato le nuove elezioni, senza la partecipazione di Evo Morales e di Álvaro García Linera.

Ciò era prevedibile, anche perché nei 14 anni di governo di Evo Morales la relazione dello Stato con gli indigeni è stata sempre clientelare. Non si è avuto una decolonizzazione politica, funzionale e strutturale. Pertanto, i medesimi meccanismi di sottomissione sono possibilmente rivenibili in qualche altro nnuovo governo.

Peggio di ogni cosa, per essere modelli del culturalismo postmoderno di ispirazione liberale capitalista, è prevedibile che in questo schema il governo attuale abbia una possibilità più favorevole di riuscita del governo precedente. Perciò, nello stesso modo in cui questa politica ha portato falsità e, successivamente, abbandono da parte degli indigeni nei confronti di Evo Morales, rappresenterà anche il caos politico per chiunque altro voglia implementare questa politica senza introdurre una decolonizzazione in termini economici, sociali e politici, e non come idealizzazione del passato, come autonomia solo supposta sui territori senza alcuna partecipazione decisoria piena nell’amministrazione del paese e in termini sincronici.

Non c’è ancore la “violenza intra-etnica” che Thierry Meyssan pare prefigurare prima ancora che constatare.

È vero che l’opposizione a Morales è sorta prima nella classe media e che gran parte di essa ignora i tempi passati in cui si esprimeva il razzismo senza limiti. Espressioni di questo tipo, però, senza dubbio non si sono manifestate ancora in alcun tipo di scontro inter-etnico… piuttosto, si è avuto solo e per ragioni diverse in supporto (o contro) Evo Morales.

La prima parte delle manifestazioni contro Morales è iniziata nella classe media, che ha manifestato in mobilitazioni civili e in blocchi cittadini. Mentre le zone residenziali e il centro di La Paz si dicevano in preda alle manifestazioni, nei quartieri popolari e, in particolar modo, nella cittadina andina di El Alto la vita quotidiana proseguiva normalmente, nonostante la chiamata di Morales di mobilitarsi e difenderlo. Alla fine, si sono tenuti consigli di cabildos anche a El Alto e mobilitazioni popolari a La Paz in favore di Morales, che ha fomentato manifestazioni di piazze, alcune violente, con l’intervento della classe media, ma si è trattato di coincidenze, senza decisione, visto che si è arrivati alla conclusione della rinuncia di Evo Morales.

Dopo l’abbandono di Morales al resto del suo partito, la sua fuga in esilio in Messico, lasciando i suoi ministri senza copertura (alcuni di essi parlavano – e, sicuramente, si organizzavano per far diventare la Bolivia il nuovo Vietnam), si è manifestata l’ira contro El Alto e le comunità indigene, dal momento che, nell’euforia della vittoria, ci furono episodi di vilipendio e insulto nei confronti della wiphala, la bandiera indigena.

Così, è accaduta la situazione contraria. Mentre La Paz e, soprattutto, le sue zone residenziali potevano essere considerate calme, la furia prendeva piede nelle zone rurale, nelle zone popolari e, in particolare, a El Alto. Il nuovo governo ha reagito con violenza, provocando morti e feriti, giustificati o passati sotto silenzio per coloro che hanno visto in quest’azione un ritorno al vecchio regime o hanno provocato una distorsione nelle analisi delle gesta postume, ma eroiche in difesa di Morales.

In realtà, l’emergenza della situazione e della coincidenza prendeva forma nell’organizzazione sotto grida di guerra “Ahora sí: Guerra Civil” e ” A la wiphala se la respeta, carajo” e il futuro può avere solo un esito politico: nel risorgere dell’idea di una vera decolonizzazione e del fatto di non potersi dire soddisfatti dall’esigenza di potenziamento reale nella vita politica boliviana.

Questo potenziamento non sarà – secondo la mia opinione – una vera soddisfazione di una supposta rivincita etnica. Può trattarsi dell’opportunità di creare una vera nazione. La storia ci ha mostrato – ad eccezione dell’esperienza latino-americana – che le nazioni non sono delle fatalità etniche, che originano nuove realtà che trascendono da chi le ha create. Però, per questo motivo, è necessaria l’ispirazione, la vitalità e l’egemonia e gli ultimi eventi ci mostrano che ciò, in Bolivia, può provenire solo dal popolo aymara.

Per quanto sarà possibile, bisogna sbarazzarsi dei miti creati dai creoli per rinforzare la realtà. E sono necessari miti che provengano dai colonizzati; solo così inizia la decolonizzazione e per questo motivo non perisce, ma può condurre a condizioni di vita, di amministrazione e di attuazione sulla realtà contemporanea, nazionale e internazionale.

Uno di questi miti è la “naturaleza” indigena di Evo Morales e del suo governo. Fortunatemante, in Bolivia si è critici soto questo aspetto, in special modo nella classe media che ha idolatrato [Morales] all’inizio, fatto che non accade ora che è all’estero… Da lì non scende dall’Olimpo e medita di resuscitare con gli elementi che hanno avuto un ruolo dieci anni fa o più e che ora sembrano ridicoli o perlomeno irrilevanti, come il ruolo dei Oustachis in Bolivia, così come richiamato da Thierry Meyssan nell’articolo citato.

(Articolo originale in Periodico Pukara http://www.periodicopukara.com/periodico.php)

*Assegnista di Ricerca Post-Doc in Storia e Istituzioni dell’America presso il Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-Politici (Università degli Studi di Milano)

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