Dalla fisica alla geostrategia: l’importanza cruciale delle terre rare

From physics to geostrategy: the crucial importance of rare earth elements

di Alessandro Gavazzi*

Rare earths

Come può un limitato gruppo di elementi chimici, relegato nella sezione inferiore della tavola periodica, avere ripercussioni così profonde sullo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, sistemi militari di ultima generazione, applicazioni mediche ed energie alternative? Come può il possesso e il controllo di tali elementi aver guadagnato un’importanza così rilevante in campi tanto diversi quanto fondamentali, arrivando a influenzare le scelte di politica estera delle potenze mondiali e orientarne le strategie geopolitiche?

Gli elementi in questione, le cosiddette “terre rare” (REE, Rare Earth Elements), sono un insieme di 15 metalli afferenti al gruppo dei lantanoidi con numeri atomici compresi tra 57 e 71, ai quali si aggiungono scandio (numero atomico 21) e ittrio (39). La loro importanza deriva da particolari caratteristiche fisiche e chimiche, prima tra tutte la capacità di esercitare campi magnetici stabili e operativi anche a temperature elevate, che garantiscono alle tecnologie alle quali sono applicati maggiore efficienza e resistenza, oltre ad una riduzione di peso, emissioni e consumo elettrico. Un altro punto di forza è legato alla possibilità di alterare le caratteristiche di altri minerali e aumentare lo spettro delle loro possibili applicazioni.

L’aggettivo “rare” è, però, fuorviante: secondo una stima dell’USGS (United States Geological Survey), infatti, sul pianeta si troverebbero circa 120 milioni di tonnellate di REE. Una quantità 200 volte superiore a quella dell’oro. La loro scarsa disponibilità deriva dalla bassa concentrazione con la quale si trovano nel terreno e le difficoltà legate al processo estrattivo, che presenta elevati costi sia in termini economici che di impatto ambientale. Allo stato naturale i metalli che contengono le terre rare si trovano legati ad altri elementi e devono essere separati attraverso procedimenti complessi che comprendono l’utilizzo di solventi chimici e acidi dannosi per l’ambiente (oltre che per la salute di umani, animali e piante), causando l’emissione di ingenti quantità di CO2 e la produzione di scorie chimiche colpevoli di inquinare le coltivazioni e le falde acquifere nei pressi delle zone di estrazione e lavorazione. Ad essere effettivamente “rari” sono quindi i giacimenti con una concentrazione di metallo sufficiente a giustificare lo sforzo e rendere economicamente sensato il processo.

Eppure, nonostante i problemi e i costi che l’acquisizione di REE comporta, essi rimangono imprescindibili per lo sviluppo tecnologico. Non è possibile immaginare il mondo odierno senza il contributo di quei 17 elementi. Automobili elettriche ed ibride, impianti per la produzione di elettricità elettrica da fonti rinnovabili, macchinari medici avanzati e dispositivi elettronici (smartphone, PC, tablet…) non potrebbero esistere senza terre rare, o non sarebbero così performanti. Basti pensare che all’interno di una comune macchina ibrida è presente circa un chilogrammo di REE, mentre per la realizzazione di una turbina eolica da 5MW sono necessari 800kg di neodimio e 200 disprosio. Tuttavia, tra le applicazioni delle terre rare l’acme  viene raggiunto in campo militare e di difesa: sistemi di guida e controllo per missili Tomahawk, smart bombs e munizioni autoguidanti, strumenti di comunicazione, sonar e radar devono le loro prestazioni all’utilizzo di microchip e processori costruiti con questi preziosi metalli. Nelle componenti di un singolo F-35 USAF si possono trovare più di 400kg di metalli rari.

I motivi che rendono il controllo delle terre rare di cruciale importanza per gli attori interessati sono da ricercare anche nelle difficoltà legate alla catena di approvvigionamento e nella mancanza di sostituti che abbiano caratteristiche paragonabili. Per quanto riguarda il primo aspetto, questo vale, naturalmente, per quei paesi che dipendono dalle importazioni: i depositi di REE, difatti, sono concentrati solo in determinati territori. A livello globale, le miniere e i giacimenti “ufficiali” si trovano principalmente in Australia (30%), Groenlandia (18%), Tanzania (10%), Sud Africa (6%) e Brasile (4%). Tuttavia, le stime più realistiche – che tengono conto delle rilevazioni dell’USGS più che delle dichiarazioni dei governi – evidenziano una situazione differente: le maggiori riserve di terre rare sono quelle situate sul territorio cinese (44 mega tonnellate, pari al 38% del totale), seguite dai giacimenti brasiliani e vietnamiti (entrambi ammontanti a circa 22Mt, 19% del totale). Al quarto e quinto posto si trovano rispettivamente Russia (12Mt, 10%) e India (~7Mt, 6%); chiudono la classifica Australia, Stati Uniti e Malesia. Appare evidente, dunque, come la Cina abbia nei confronti dei competitor un fondamentale vantaggio nella corsa al controllo di questi metalli. Vantaggio che Pechino sa sfruttare egregiamente: nel 2018 oltre due terzi della produzione mondiale di terre rare è stata estratta e raffinata su suolo cinese. Questo è stato possibile grazie al diffuso know how, frutto dell’esperienza derivata da decenni di attività estrattiva, un basso costo della manodopera e leggi molto permissive in materia di tutela ambientale e di salute dei lavoratori. Inoltre, la collocazione degli impianti raffinamento nelle immediate vicinanze dei siti di estrazione permette di diminuire ulteriormente i costi produttivi e di trasporto. Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello relativo all’insostituibilità delle terre rare, esso è di ancor più difficile soluzione: tali elementi sono infatti i più adatti ad essere utilizzati in una così vasta gamma di applicazioni e nessun potenziale sostituto, ad oggi, presenta caratteristiche paragonabili. Inoltre, il tasso di riciclaggio si attesta intorno all’1% e i tentativi di recuperare REE come prodotto di scarto dell’estrazione di altri metalli non stanno dando i frutti sperati. La catena di produzione rimane quindi vincolata ad una logica “lineare” di estrazione-utilizzo-smaltimento, e non si intravedono metodi di approvvigionamento alternativi.

Questi elementi fanno della Cina il leader indiscusso del mercato mondiale. Per avere un’idea della portata delle capacità estrattive cinesi è sufficiente confrontarle con quelle statunitensi: tra il 2018 e il 2019 quest’ultime sono passate da 18’000 a 26’000 tonnellate annue. Nello stesso periodo, Pechino ha incrementato la sua produzione da 120’000 a 132’000t. Le ragioni che hanno condotto a questa situazione sono da cercare, oltre che nella ricchezza del sottosuolo, anche nel fatto che la Cina ha iniziato la corsa alle terre rare in anticipo rispetto ai diretti avversari, partendo fin dagli anni ’80 con investimenti governativi mirati a sviluppare il settore che, complici le favorevoli condizioni del mercato del lavoro e della giurisdizione in materia ambientale precedentemente citati, le hanno fatto guadagnare il primato mondiale fin dai primi anni del XI secolo. Fiore all’occhiello dell’industria mineraria cinese è il giacimento di Bayan Obo. Situato nella Mongolia Interna e gestito dal Baogang Group (società a gestione statale), contiene circa l’80% delle riserve totali a disposizione della Cina e rappresenta il sito estrattivo più ricco al mondo.

Queste condizioni permettono a Pechino di poter spendere questo vantaggio in chiave geopolitica, sfruttando la dipendenza altrui per il proprio tornaconto. Già nel 2010, in risposta all’arresto di un capitano di un peschereccio battente bandiera cinese al largo delle isole Senkaku (giuridicamente giapponesi ma rivendicate dalla Cina), il governo di Wen Jiabao interruppe le forniture di REE destinate al Giappone, con lo scopo di metterne in crisi le industrie del settore tecnologico, tanto all’avanguardia quanto dipendenti dalle materie prime di provenienza estera. Seppur inizialmente messa alla prova, l’economia giapponese reagì diversificando gli approvvigionamenti e riducendo la dipendenza dalle importazioni cinesi dal 91 al 58%. Le autorità cinesi hanno la possibilità di influenzare il mercato globale delle REE anche indirettamente, agendo sugli incentivi statali destinati alle imprese esportatrici operanti sul loro territorio. Così accadde tra il 2009 e il 2011, quando una riduzione del 40% di tali sovvenzioni portò ad un impennata dei prezzi delle terre rare da 9 a 67$ per tonnellata, mettendo in difficoltà le aziende occidentali. Questa strategia di limitazione delle esportazioni risponde, dal punto di vista di Pechino, ad una doppia logica: oltre a danneggiare gli avversari politici (in primis gli Stati Uniti, principali destinatari dell’export cinese), permette di aumentare le capacità di produzione interna di tecnologie avanzate, settore fondamentale destinatario di ricchi investimenti governativi, previsti nel programma Made in China 2025 e dal quattordicesimo Piano Quinquennale (2021-2025).

Washington è consapevole dei pericoli che potrebbero derivare dalla dipendenza – che sfiora l’80% del totale – della filiera produttiva nazionale dalle materie prime cinesi, soprattutto nell’ambito della difesa, e sta cercando di porvi rimedio. Già nel 2019, i vertici militari hanno previsto finanziamenti per l’aumento della produzione domestica di terre rare, facendo registrare il primo progetto di investimento sovvenzionato dal Pentagono nel campo dell’estrazione di risorse geologiche dai tempi del Progetto Manhattan. In quest’ottica si inserisce l’acquisizione della miniera californiana di Mountain Pass (l’unico sito estrattivo presente in nord America) da parte di MP Materials nel 2017, dopo il fallimento della precedente proprietà. Il progetto ha previsto una vasta ristrutturazione della miniera e degli impianti di raffinamento, fino ad arrivare alla fine del 2020 ad una produzione incrementata senza la necessità di affidarsi a paesi terzi per completare i processi di estrazione. Sempre nel 2019 è stato inoltre stipulato un memorandum d’intesa tra l’australiana Lynas Corporation e la texana Blue Line Corporation allo scopo di realizzare un sito estrattivo su suolo americano presso Hondo, in Texas. Nel marzo 2021, il presidente Usa Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo allo scopo di tracciale le criticità del paese nelle catene di approvvigionamento di materie prime considerate strategicamente sensibili, tra le quali REE; il Dipartimento per l’Energia  ha stanziato 30 milioni di dollari per far fronte alle vulnerabilità riscontrate.

Se è vero che Cina e Stati Uniti rimangono (e rimarranno per diversi anni) i player principali in questo settore, altri attori sono candidati a farsi avanti, ritagliandosi un proprio spazio di azione e una fetta di mercato nel breve periodo. In primo luogo, la Russia: nonostante sia il quarto paese per riserve di REE, produce meno dell’1,3% del totale globale. Per far fronte a questa situazione, il Cremlino ha stanziato nell’agosto del 2020 l’equivalente di 1,5 miliardi di dollari in un piano di investimenti volto ad incrementare la quota di produzione russa fino al 10% entro la fine del decennio. Anche l’Australia, considerevolmente ricca di giacimenti, negli ultimi anni ha ampliato la produzione interna grazie alla precedentemente citata Lynas Corporation, che estrae materiale grezzo dal  giacimento di Mount Weld (primo sito del paese per abbondanza di depositi) per poi raffinarlo nell’impianto di Kuantan, in Malaysia.

La Cina è in netto vantaggio anche per quanto riguarda un’altra sfida di fondamentale importanza per il futuro del mercato delle terre rare:  il controllo e lo sfruttamento dei giacimenti presenti in territorio africano. Il sottosuolo del continente è infatti ricco di REE e Pechino, sfruttando una posizione privilegiata guadagnata grazie ad una presenza stabile e numerosi investimenti nelle infrastrutture locali, ha già stretto accordi in Mozambico, Madagascar, Guinea e Repubblica Democratica del Congo per l’estrazione di materiali da raffinare negli impianti in patria. Anche la Russia, attraverso imprese private finanziate da sussidi statali, sta ampliando il proprio intervento in Madagascar e Zimbawe, dove vengono sfruttate imponenti riserve di cerio e lantanio. Gli Stati Uniti hanno avviato negoziati con Malawi e Burundi per assicurarsi i diritti di sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo. Infine, la Commissione Europea, a settembre 2021, si è detta favorevole al dialogo con alcuni paesi africani per diversificare gli approvvigionamenti di minerali strategici, per i quali al momento dipende totalmente dalla Cina (che detiene il 98% delle importazioni dei paesi dell’Unione).

In conclusione, il mercato delle terre rare a livello globale è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, trainato dal settore high tech e dalle energie rinnovabili, ed è facile prevedere che la tendenza rimarrà la medesima anche nei prossimi decenni, come confermato dalle stime della Banca Mondiale. Le REE continueranno la propria ascesa, tanto in termini di domanda quanto di importanza strategica. Quello che differenzia questi metalli da altre materie prime è la loro insostituibilità: petrolio e carbone possono essere rimpiazzati – almeno in teoria – da energie rinnovabili o nucleare, mentre il rame (primo classificato per quanto riguarda il volume di estrazione negli ultimi anni, 21 milioni di tonnellate nel solo 2018) non può essere un valido surrogato dello scandio o del lantanio nelle applicazioni che richiedono le peculiarità chimico-fisiche di questi ultimi. Inoltre, la loro importanza dipende anche dal ruolo che ricoprono in un settore delicato e fondamentale come quello della difesa. Nessun governo che intenda possedere una forza militare funzionante e competitiva può privarsi delle componenti necessarie a sviluppare i circuiti di un aereo da guerra o i mirini laser di un fucile d’assalto. Per questo, la certezza di poter contare su giacimenti sicuri e controllare l’intero iter di produzione è una carta importante, scientemente utilizzabile per fini geopolitici dai Paesi che ne hanno la possibilità nei confronti di avversari privi di questa fortuna, come strumento di deterrenza o pressione. Per i primi sarà importante giocare d’anticipo e consolidare il primato; mentre per i secondi è fondamentale uscire da questa condizione di dipendenza e vulnerabilità, arrivando per primi a fonti di approvvigionamento alternative. Oggi la sfida chiave si gioca dunque sul continente africano, con la Cina in testa (con un certo margine di distacco) e Stati Uniti e Russia costretti ad inseguire. Altre pedine minori iniziano ad affacciarsi sul terreno di gioco, ma sono lungi dal rappresentare una preoccupazione per i player dominanti.

Quanto questa sfida risulterà effettivamente decisiva per le traiettorie strategiche degli stati coinvolti dipenderà da diversi fattori, quali lo sviluppo delle tecnologie future (civili e militari), l’andamento del mercato delle energie rinnovabili e dei motori elettrici, il possibile sviluppo di nuovi processi di estrazione e lavorazione, la scoperta di nuovi giacimenti o particolari rivoluzioni nella supply chain. Tuttavia, al momento, le condizioni del settore delle terre rare costringono i governi ad agire seguendo un percorso obbligato, senza potersi concedere il lusso di sottovalutare l’importanza geostrategica di quei diciassette, cruciali elementi.

* Studente della laurea magistrale in Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale, Università degli Studi Internazionali di Roma

 

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