COLOMBIA AT THE CROSSROADS

di Graziano Palamara*

Le rivolte antigovernative che da mercoledì 28 aprile stanno investendo la Colombia hanno il sapore di una svolta storica per la Repubblica andina. Ad accendere la protesta è stato l’annuncio di una riforma fiscale voluta dal governo del Presidente Iván Duque per garantire la stabilità macroeconomica dello Stato e rassicurare i mercati sulla sostenibilità del debito pubblico. Le manifestazioni organizzate contro la manovra e duramente represse dalla polizia hanno spinto il paese verso scenari inediti. A poco più di un anno dalle prossime elezioni presidenziali e nel pieno della terza ondata di Covid-19 – la più grave dall’inizio della pandemia – la Colombia si ritrova a sperimentare, infatti, una mobilitazione del tutto nuova in quanto a estensione nazionale e appoggio politico e sociale.

In passato, rivolte come quelle del Bogotazo del 1948 o del Paro Cívico del 1977 non mancarono di incidere sull’evoluzione dell’ordine interno, ma furono presto assorbite dalle logiche di un sistema noto per il suo immobilismo e per il rigido controllo della società da parte della classe politica[i]. Le azioni promosse negli ultimi giorni contro il governo di destra di Duque, in carica dal 2018, sono differenti innanzitutto perché nascono da un movimento eterogeneo, il Comité Nacional del Paro, formato da una pluralità di associazioni che sono riuscite a paralizzare la produzione, la fornitura di beni, i trasporti e i servizi sia nelle principali città che nei centri più remoti.

Tra il novembre del 2019 e il febbraio del 2020, le scelte politiche ed economiche di Duque avevano già generato una prima ondata di proteste, segnata da episodi di violenza, ma poi defluita per la promessa governativa di aprire un tavolo di concertazione e per l’inizio della pandemia.

Nell’impatto economico, politico e sociale della crisi sanitaria va ricercata la seconda ragione per cui le mobilitazioni di questi giorni risultano di una portata inedita. La pandemia – che ad oggi ha provocato oltre 76.000 morti e fa della Colombia il terzo Stato sudamericano per numero di decessi e contagi – ha spinto il paese nella peggiore recessione economica degli ultimi cinquant’anni. Il PIL nel 2020 è sceso del 6,8% e tutti gli indicatori sociali hanno prefigurato il rischio di una década perdida: il dato più drammatico riguarda la percentuale di popolazione che vive in povertà, passata dal 35,7% del 2019 al 42,5% del 2020. Per molti, la gestione governativa della crisi non ha fatto che peggiorare la situazione. Con uno dei lockdown più lunghi al mondo e i numerosi ritardi nell’implementazione del piano vaccinale, Duque ha progressivamente perso il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica, fino a registrare nel primo quadrimestre del 2021 un tasso di disapprovazione del 63,2%.

È in questo contesto che il Ministro del Tesoro, Alberto Carrasquilla, ha presentato al Congresso la riforma fiscale poi alla base del nuovo ciclo di proteste. Col nome di Ley de Solidaridad Sostenible la riforma ha previsto la riscossione di quasi sette miliardi di dollari, pari al 2% dell’intero PIL colombiano, da incamerare soprattutto mediante misure quali l’aumento dell’IVA, l’ampliamento della base dei contribuenti, l’introduzione di una nuova carbon tax e un’imposta sulla plastica monouso. Ambiziosa nei propositi, ma diretta a gravare principalmente sulla classe media e sui ceti meno abbienti già prostrati dalla crisi, la riforma ha subito incontrato l’opposizione del Congresso e delle piazze. Mentre Duque e il suo mentore politico, l’ex Presidente Uribe, cercavano di scongiurare il fallimento del progetto in Parlamento, il paese ha scelto la via della mobilitazione, lasciando intendere che la protesta non si sarebbe limitata solo ad esigere il ritiro della legge fiscale. Le manifestazioni e i blocchi organizzati dal Comité Nacional del Paro hanno infatti registrato un’ampia convergenza di rivendicazioni economiche, sociali e politiche, esasperate dall’atteggiamento repressivo del governo e dalla conseguente decisione di militarizzare le città.

Dopo quattro di giorni di protesta Duque ha annunciato il ritiro della riforma, pur ribadendo che il riordino fiscale del paese “non è un capriccio, ma una necessità”. Alla disposizione del Presidente hanno fatto seguito le dimissioni del Ministro Carrasquilla, ma non la fine delle mobilitazioni che, nell’estensione delle richieste condensano la terza ragione per cui il paese sarebbe oggi di fronte ad un inedito snodo storico.

Già alla fine del 2019, quando nacque, il Comité Nacional del Paro aveva stilato un vasto programma di petizioni (oltre 100) che, rispecchiando l’eterogeneità del comitato, aveva messo il governo Duque di fronte ad un doppio problema: il primo, “di agenda”, per la difficoltà di prevedere trattative inerenti a una ampia varietà di materie; il secondo, “di attori”, dato dalle decine di sigle politiche e sociali che conformano il comitato. Attualmente, gli osservatori più accorti concordano nel riconoscere l’esistenza di tre grandi linee generali che ispirano le rivendicazioni di chi protesta.

Innanzitutto, la richiesta di una economia più equa e solidale. La Colombia è il secondo paese più ineguale del continente con una distribuzione della ricchezza e delle risorse naturali ancora appannaggio di pochi. Un cambio al modello di sviluppo e l’adozione di efficaci politiche sociali e redistributive, che includano anche riforme nel settore della salute, dell’educazione e dell’ambiente, vengono considerati perciò imperativi non più derogabili.

In secondo luogo, la richiesta di una nuova amministrazione della forza pubblica, a partire dalla riforma della polizia. In Colombia, questo corpo dipende dal Ministero della Difesa, è soggetto alla giurisdizione militare e, come tale, si sottrarrebbe al controllo civile anche di fronte a gravi casi di abusi. La riforma della polizia, non a caso, è tornata ad essere invocata proprio di fronte ai drammatici numeri della repressione delle proteste in corso: oltre 30 morti, 800 feriti, casi di abusi sessuali e una novantina di desaparecidos denunciati da alcune ONG; dati preoccupanti che hanno spinto vari paesi e organismi internazionali, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’ONU, a lanciare appelli a sostegno della difesa dei diritti umani.

L’ultima linea, ma non per questo la meno importante, riguarda l’implementazione della pace raggiunta nel 2016, dopo oltre mezzo secolo di conflitto interno, tra il governo di Juan Manuel Santos e la guerriglia marxista delle FARC (Fuerza Armada Revolucionaria de Colombia). I sei punti che conformano l’Accordo prevedono l’avvio di un ciclo di riforme per il settore rurale, il sistema della rappresentanza politica, la riparazione dei diritti delle vittime e l’istituzione di una commissione per la verità. Ad oggi, in realtà, gli accordi hanno avuto solo un’attuazione parziale. Tanto l’ONU, attraverso la Missione di Verifica della pace, quanto i centri di studio specializzati denunciano preoccupanti ritardi su quasi tutte le materie oggetto di accordo[ii]. L’ala più conservatrice del Centro Democratico, il partito di cui Duque è espressione, continua oggi a considerare l’Accordo un meccanismo di impunità per gli ex guerriglieri. Questo atteggiamento ha contribuito a inchiodare la Colombia ad una persistente condizione di violenza, segnata da assassinii pressoché quotidiani di leader sociali, attivisti politici, difensori di diritti umani ed ex combattenti. La retorica con cui il Centro Democratico, e in modo particolare il suo principale rappresentante, Alvaro Uribe, continuano ad opporsi all’Accordo sta riecheggiando nella criminalizzazione delle proteste oggi in corso. L’idea che le espressioni del dissenso rispondano ad una “regia castrochavista”, utile a etichettare i manifestanti come “terroristi urbani”, impedisce, in realtà, di cogliere che il superamento del conflitto potrebbe dare alla Colombia la possibilità di affrontare in modo nuovo il consolidamento democratico dello Stato, il miglioramento delle condizioni sociali e di mettere al centro dell’agenda interna ed internazionale del paese sfide di primaria grandezza.

Le immagini della repressione, gli abusi della polizia e gli atti di vandalismo a cui una frangia dei manifestanti si è lasciata andare stanno oscurando le ragioni profonde della protesta. Le espressioni di violenza confortano quanti continuano ad interpretare la storia colombiana attraverso l’allegoria di un insuperabile movimento pendolare, che oscilla fra l’irruzione della protesta sociale, la repressione e il successivo sbocco nella ribellione armata. Spetterà al governo innanzitutto favorire la pacificazione e il dialogo. Duque, che in questi anni non è riuscito a smarcarsi completamente dalle posizioni più radicali del suo partito, ha già avviato le consultazioni con i partiti e ha fatto sapere che a queste seguiranno gli incontri con il Comité del Paro. Il capitale politico di cui l’attuale Presidente dispone è però minimo, come la sua capacità negoziale. Sui colloqui fra il governo e i partiti pesa, inoltre, l’ombra delle elezioni presidenziali del 2022. Ovviamente, si tratta di una scadenza che condiziona l’atteggiamento di tutti gli attori politici: dal Centro Democratico, che non ha definito ancora un candidato, alla Coalición de la Esperanza, un composito gruppo di riformisti, fino al leader di Colombia Humana, il socialista Gustavo Petro che al momento i sondaggi danno come il candidato vincente. Vale la pena ricordare, peraltro, che se le urne dovessero confermare le intenzioni di voto, l’estrema sinistra andrebbe per la prima volta al governo. Il risultato sarebbe storico e rinnoverebbe l’interrogativo su uno dei maggiori paradossi che la Colombia vanta, e cioè, cosa spiega che dalla sinistra legale più debole dell’America Latina sia nata, dopo la rivoluzione cubana, la sinistra armata più forte e longeva dell’intero continente.

Sotto gli occhi della comunità internazionale per la denuncia degli abusi in atto, in Colombia si sta dunque giocando davvero una partita inedita. L’unica certezza, per ora, è che dalla strada che il paese imboccherà non dipenderà solo il suo futuro, ma anche una buona parte di quello latinoamericano.

FONTI

* Professore Associato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Salerno

[i] Il Bogotazo fu la massiccia ondata di rivolte e repressioni seguite all’assassinio di Jorge Eliecer Gaitán, leader del liberalismo radicale e candidato alla Presidenza della Repubblica assassinato a Bogotá il 9 aprile del 1948. Comunemente, il Bogotazo è considerato uno spartiacque nella storia della Colombia e rappresenta la vicenda più traumatica dell’intera storia colombiana nota come l’epoca della Violencia. Il Paro Cívico del 1977 rappresentò l’azione di protesta popolare più imponente che la Colombia avesse sperimentato fino a quel momento. Le mobilitazioni, promosse dai maggiori sindacati e da settori indipendenti, durarono due giorni (14 e 15 settembre) e furono innescate dall’opposizione alle misure economiche e politiche dell’allora Presidente Alfonso López Michelsen. Sulle vicende cfr. D. Bushnell, Colombia. Una nación a pesar de sí misma, Bogotá, Planeta, 1996, pp. 276-279 e 330-331.

[ii] Le relazioni trimestrali della Missione dell’ONU sono disponibili alla pagina https://colombia.unmissions.org/. Un bilancio complessivo dei primi 30 mesi dell’accordo è stato invece stilato dalle segreterie del Centro de Investigación y Educación Popular/Programa por la Paz (CINEP) e del Centro de Recursos para el Análisis de Conflicto (CERAC). Al riguardo cfr. Documento de balance de los primeros 30 meses de la implementación del Acuerdo Final, Bogotá, 30 de septiembre de 2019.

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