Discorso di Mir Ahmed Joyenda, affiliato al Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-Politici come “scholar at risk” e beneficiario di una borsa di studio della Gerda Henkel Foundation, in occasione del seminario “Gli Scholars at Risk all’Università degli Studi di Milano. Testimonianze dirette degli studiosi, riflessioni sui contesti di provenienza e il contributo dei docenti tutor”, che si è tenuto presso l’Ateneo il 15 dicembre 2022.
(tradotto e curato da Giuliano Battiston, giornalista, scrittore, ricercatore freelance )
Grazie per il caloroso benvenuto che mi avete riservato. Sono contento di essere qui, oggi: è un po’ come se fossi tornato uno studente universitario. Qualcuno di voi si chiederà perché, all’età di 71 anni, abbia lasciato il mio Paese, l’Afghanistan. Ho dovuto farlo dopo il 15 agosto del 2021, quando i Talebani sono tornati al potere dopo molti anni di guerriglia e di conflitto contro il governo di Kabul, i soldati governativi e quelli della coalizione internazionale che sosteneva la Repubblica islamica, l’architettura istituzionale e politica edificata in seguito al rovesciamento nel 2001 del primo Emirato islamico.
Nell’agosto 2021, come sapete, nel mio Paese molte cose sono cambiate. I Talebani, un gruppo di guerriglieri senza alcuna istruzione se non quella ricevuta nei campi di addestramento, è arrivato al potere anche a causa delle errate misure politiche adottate dai nostri alleati occidentali. I quali hanno a lungo sostenuto la Repubblica islamica, a dispetto del malfunzionamento del sistema istituzionale, dell’alto livello di corruzione, della mancanza di trasparenza verso la popolazione civile, del progressivo ampliarsi del deficit di fiducia degli afghani verso la leadership politica. Senza contare gli errori politici contenuti nel processo diplomatico che ha portato alla firma, nel febbraio 2020, del cosiddetto “Accordo di Doha”, l’accordo tra la leadership dei Talebani e il governo degli Usa sul ritiro dei soldati statunitensi dall’Afghanistan.
Negli anni successivi al 2001, le reti della società civile afghana – anche grazie al sostegno della comunità internazionale – si sono rafforzate. Ne ho fatto parte, come membro dell’associazione Equality for Peace and Democracy Afghanistan, poi come responsabile della Foundation for Culture and Civil Society, tra le prime associazioni a promuovere i diritti e la coesione sociale attraverso gli strumenti culturali, oltre che come vicedirettore di AREU, l’Afghanistan Research and Evaluation Unit, uno dei centri di ricerca più accreditati del Paese, attivo nella ricerca sul campo su temi di interesse sociale e istituzionale. Ho partecipato anche a molte altre iniziative simili, ma mi piace ricordare queste tre in particolare, oltre al mandato svolto come parlamentare della Wolesi Jirga, la Camera Bassa dell’assemblea bicamerale della Repubblica islamica.
La società società civile afghana in questi anni non è stata esente da errori, nelle pratiche ordinarie, nel rapporto tra i gruppi della capitale Kabul e quelli delle altre province, nella valutazione del contesto in cui operava, ma ritengo che abbia svolto comunque un ruolo utile, spesso cruciale. Per esempio promuovendo la partecipazione pubblica, monitorando i diritti umani e i processi elettoriali, diffondendo una cultura di pace, rivendicando e praticando nelle attività quotidiane il protagonismo di donne, uomini e giovani, provando a spronare la popolazione verso percorso di riconciliazione. La società civile non ha poi mancato di denunciare i due grandi problemi dell’ingiustizia e della corruzione. Per “ingiustizia”, noi afghani intendiamo molte cose: la mancanza di giustizia penale e dello Stato di diritto; l’ingiustizia sociale; l’ineguale distribuzione delle risorse e del potere politico ed economico; la mancanza di servizi sociali e di opportunità di lavoro. Ma sono due i fattori su cui insistiamo di più: la corruzione e la cultura dell’impunità. A lungo, come esponenti della società civile, abbiamo denunciato la corruzione e l’ingiustizia sociale, ritenendoli i pericoli maggiori per la stabilità del Paese e dei veri e propri ostacoli verso la stabilizzazione e l’effettiva democratizzazione. Ingiustizia e corruzione, quando diffuse e capillari, minano infatti alle fondamenta la legittimità di ogni governo, tanto più quelli che, come la Repubblica islamica d’Afghanistan, scontano una forte dipendenza economica e politica dall’esterno. Ritengo dunque che questi due fattori abbiano contribuito al collasso tanto rapido della Repubblica islamica, nell’estate del 2021, quando i Talebani hanno progressivamente conquistato i distretti rurali, poi i capoluoghi di provincia, infine il 15 agosto 2021 la capitale Kabul, dove anche io risiedevo.
Kabul è stata, per molti anni, il cuore della società civile afghana. È lì che hanno avuto sede la maggior parte delle organizzazioni non governative; è lì che si sono svolti molti incontri, conferenze, dibattiti; ed è lì che si è consolidato anche il rapporto con gli interlocutori stranieri, come gli amici della rete (poi divenuta associazione) Afgana. Con loro, per esempio, ci siamo interrogati a lungo su cosa si debba intendere per società civile, su cosa possa significare la stessa categoria concettuale di società civile in un contesto come quello afghano, il cui sistema politico-sociale opera secondo meccanismi differenti da quelli che hanno dato vita agli Stati-nazione europei, nel cui ambito come sappiamo è stata sviluppata la nozione classica di società civile. Negli Stati-nazione prevale la corrispondenza tra autorità politica, sovranità giuridica e confini territorialmente definiti, ma in Afghanistan esiste una differenza tra sovranità formale e sovranità reale, tra autorità de jure e autorità de facto. Senza contare che la centralizzazione statale storicamente si combina a una frammentazione centrifuga del potere, distribuito tra una varietà di attori locali e regionali. Tenendo conto di tutto questo, è possibile parlare di società civile? È una domanda a cui mi riprometto di provare a rispondere, almeno in parte, con un saggio a cui sto lavorando, sulla protezione del patrimonio culturale-artistico dell’Afghanistan.
In questo contesto basterà dire che, a dispetto della diversità a cui ho accennato, sin dal trattato di Bonn del 2001 (l’accordo politico che ha delineato il quadro della transizione post-talebana, escludendo i Talebani dal tavolo negoziale), tutti i principali Paesi donatori hanno accordato alla società civile un ruolo centrale nei processi di peace-building e di ricostruzione. Si è trattato di un sostegno importante, formale e finanziario, ma ha riguardato soprattutto le organizazzazioni non governative propriamente dette, meno invece le organizzazioni tradizionali o privw di una formula associativa riconoscibile dai donatori. La preferenza accordata alle Ong e alle associazioni inclini a sottoscrivere l’agenda e l’orientamento politico dei Paesi donatori – quella che è stato definita “l’interpretazione burocratica della società civile” – ha prodotto una semplice equivalenza tra società civile e organizzazioni non governative (le forme associative più familiari dal punto di vista occidentale, quelle più strumentali all’agenda della “good governance”). Inoltre, ha consolidato l’illusione che, erogando soldi per le politiche di aiuto umanitario, si sarebbe di per sé sostenuta la società civile, ridotta dunque a semplice erogatrice di servizi. È così che, accanto a uno Stato rentier, dipendente da risorse economiche, diplomatiche e politiche esterne, è stata edificata una società civile rentier, donor-driven, sostanzialmente dipendente dalle risorse esterne. Potrei sintetizzare tutto questo discorso con una frase, che mi è capitato di ripetere spesso: si è pensato ai progetti, non al processo, dunque ai singoli progetti da finanziare e da implementare, non al più ampio processo di rafforzamento delle istituzioni, delle pratiche virtuose, dei beni comuni. Aggiungo che in tutti questi anni i Talebani hanno perlopiù percepito la società civile come una sorta di braccio della propaganda governativa del governo di Kabul e degli stranieri, uno strumento-veicolo di importazione e imposizione di pratiche e idee illegittime, occidentali. Dunque da biasimare e attaccare, anche militarmente.
Il collasso della Repubblica islamica, il ritorno al potere dei Talebani e l’instaurazione dell’Emirato hanno generato un terremoto che ha investito ogni settore, incluso quello della società civile: la rete costruita negli ultimi venti anni è saltata. Vale per Kabul, la città nella quale più diffuso e capillare è stato il lavoro delle organizzazioni della società civile, ma vale anche in molte altre città del Paese. Il processo di evacuazione degli afghani ritenuti a rischio, e la spinta migratoria successiva alla presa del potere dei Talebani hanno fortemente indebolito la rete, insieme alla percezione diffusa tra gli attivisti e le attiviste di essere obiettivi della rappresaglia dei Talebani. Più nel concreto, sono due le dinamiche che hanno indebolito la rete della società civile: il fatto che a lasciare il Paese, con le evacuazioni, sia stato in molti casi il personale dirigente delle associazioni e poi l’interruzione dei finanziamenti alle associazioni locali da parte degli attori internazionali. Un effetto di quella dipendenza dall’esterno di cui parlavo prima.
Per concludere, vale la pensa chiedersi cosa succede oggi e cosa fare. È molto difficile rispondere. Quel che è certo che siamo in una fase molto delicata, che richiede maggiore protagonismo da parte della società civile italiana, delle istituzioni, della stessa popolazione, ma anche prudenza, per evitare di danneggiare coloro che vivono in Afghanistan e che potrebbero essere soggetti a rappresaglie da parte dei Talebani. Dunque, che fare? È convinzione di molti miei interlocutori che, ancor più che in passato, la diaspora giocherà un ruolo fondamentale. È importante che, attraverso gli attori della diaspora, vengano mantenuti canali di comunicazione e collaborazione tra chi opera all’interno del Paese e quanti sono fuori, anche per non dissipare il capitale intellettuale che esiste in Afghanistan. Un capitale indispensabile per il mio Paese. Abbiamo vissuto decenni di guerra e conflitto e occorre continuare il lavoro di ricucitura del tessuto sociale, tanto più oggi: i Talebani hanno confermato di avere una concezione monopolistica del potere e questo rischia di accentuare le divisioni etnico-comunitarie. Per evitarle, serve riconciliazione. Serve ancora la società civile afghana. E serve il sostegno dei nostri amici stranieri, a partire da quelli italiani, che ringrazio per l’ospitalità che mi hanno accordato. Così come ringrazio voi per l’attenzione che mi avete riservato.
*Si ringrazia la rete SAR – Scholars at Risk e il Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-Politici dell’Università degli Studi Milano, di cui Mir Ahmed Joyenda è ospite