In Libya few hopes for peace in a failed state

In Libya few hopes for peace in a failed state

In Libia remote speranze di pace in uno Stato fallito

di Lorenzo Barella[1]

Lo scorso 18 dicembre l’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e UNSMIL, la missione ONU in Libia, hanno rilasciato un rapporto dettagliato che documenta gli abusi subiti dai migranti in Libia.[1] Detenzione arbitraria, isolamento dal mondo esterno, torture, deportazione, stupri rappresentano la realtà quotidiana per migliaia di migranti nel momento stesso in cui mettono piede nel Paese nord-africano. Il rapporto ONU non rappresenta certo una novità; le condizioni disumane dei migranti in Libia sono ben note da anni a chiunque non abbia deciso di nascondere la testa sotto la sabbia. Eppure gli ispettori ONU documentano una situazione che va al di là delle condizioni dei migranti per sé; sotto i riflettori c’è infatti uno Stato fallito, ostaggio di milizie e corruzione, in cui il diritto non ha ormai alcun valore.[2]

Questo quadro poco confortante arriva in un momento cruciale, alle porte di un anno che per molti potrebbe segnare una svolta nel processo di pace libico.[3]

Lo scorso 12 e 13 novembre è andata in scena a Palermo una nuova conferenza di pace sulla Libia organizzata dal governo italiano. Sebbene la conferenza abbia raggiunto ben pochi risultati concreti, limitandosi a ribadire i principi di piani precedenti,[4] al contempo è servita a rilanciare un processo di pace che si era bruscamente interrotto in seguito agli scontri a Tripoli dello scorso settembre.  In primo luogo, è stato posto l’accento sull’importanza di un processo di riconciliazione e negoziazione, che si dovrebbe tradurre in una conferenza nazionale libica da tenersi a inizio 2019 sotto l’egida dell’UNSMIL; tale conferenza nazionale dovrebbe creare le condizioni per svolgere un referendum costituzionale e poi elezioni unitarie nella prima metà del 2019.[5] È stata dunque sancita definitivamente la fine del progetto irrealistico di avere elezioni a livello nazionale entro il dicembre 2018, lanciato lo scorso maggio durante la conferenza di Parigi. È stata inoltre sottolineata la necessità di portare avanti sostanziali riforme economiche, non solo per migliorare le condizioni di vita della popolazione, ma anche per contrastare il continuo sfruttamento delle risorse libiche da parte delle varie milizie che controllano buona parte del Paese.[6]

I propositi rilanciati a Palermo si scontrano però con la profonda instabilità che caratterizza la Libia, e il recente rapporto ONU non è altro che un’ulteriore conferma. Dal punto di vista politico il Paese è formalmente diviso in due principali centri di potere. A Tripoli risede il governo riconosciuto dall’ONU e da buona parte della comunità internazionale, con a capo il primo ministro Fayez al Sarraj. Al Sarraj è a capo di un governo senza potere e senza legittimità, ostaggio delle varie milizie che lo sostengono. Tali milizie si sono divise la città e le sue risorse, trasformandosi in vere e proprie organizzazioni criminali dedite ad attività illegali di ogni sorta, tra cui traffico di esseri umani, estorsione e riciclaggio.[7] Le mani delle milizie si estendono ad istituzioni chiave, in particolar modo le banche, che rappresentano una fonte importante del potere di questi gruppi armati.[8]

A Tobrouk, nell’est del Paese, risiede invece la House of Representatives (HoR), che dovrebbe idealmente fungere da parlamento unitario. Così prevedeva infatti il Libyan Political Agreement (LPA), approvato nel 2015 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.[9] Da allora la HoR non ha trasformato il piano in legge e non ha dato il suo appoggio al governo di al Sarraj, creato tramite il LPA, sostenendo al contrario il governo rivale presieduto da Abdullah al-Thinni, che ha sede anch’esso nell’est del Paese, nella città di Bayda.[10] Il potere a est rimane comunque in buona parte nelle mani del generale Haftar, a capo dell’Esercito Nazionale Libico.

Se la situazione politica sopra descritta potrebbe già risultare complicata, la realtà lo è ancora di più. In gran parte del Paese, infatti, il potere è gestito da milizie locali e alleanze tribali che sfuggono completamente al controllo di uno Stato che non c’è.[11]

Di questa instabilità strutturale da anni cerca di approfittare il generale Haftar, che cerca di presentarsi come l’unico in grado di ristabilire l’ordine in un paese in preda al caos.[12] Ad ogni modo, considerata l’instabilità del Paese, l’idea dell’uomo forte al comando non sarebbe di facile applicazione nella Libia attuale. Il modello contorivoluzionario rappresentato dall’Egitto dell’alleato di Haftar Abdel Fattah el Sisi sarebbe difficilmente replicabile in Libia. Al Cairo infatti le istituzioni centrali erano rimaste intatte negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione del 2011, mentre in Libia lo stato costruito da Gheddafi, incentrato sulla sua figura e le sue alleanze, è collassato;[13] in queste condizioni ristabilire un’autorità centrale sarebbe un’impresa ardua anche per l’uomo forte di Tobrouk. Ad ogni modo, Haftar cercherebbe con ogni probabilità di ripristinare lo stato autoritario e anti-democratico che la rivoluzione del 2011, almeno per molti che vi hanno preso parte, mirava a distruggere. Un modello che la comunità internazionale non può avvallare.

I prossimi mesi diranno se davvero una svolta in Libia sia possibile, e anche quale strada tale svolta possa prendere. La via indicata a Palermo rimane al momento l’unica in vista; eppure il piano di pace rilanciato in Sicilia è caratterizzato da pesanti incognite. La fretta con cui ci si propone di arrivare ad elezioni sembra più guidata dalla necessità della comunità internazionale e delle Nazioni Unite di mostrare un risultato tangibile, piuttosto che da un’attenta valutazione della situazione del Paese.[14] Nell’assenza di un reale stato di diritto un ritorno alle urne sarebbe probabilmente caratterizzato da pesanti distorture, in uno scenario in cui sia le varie milizie sia lo stesso Haftar cercherebbero di influenzare il voto a proprio favore. Piuttosto che favorire la riconciliazione e l’unità, il voto potrebbe alimentare nuove tensioni e compromettere un processo ancora estremamente fragile. La priorità dovrebbe essere costruire un processo realmente inclusivo, partecipato e legittimo agli occhi dei libici e, al contempo, rafforzare le istituzioni dello Stato con riforme che limitino gradualmente il potere delle milizie. Solo così si può sperare che la Libia non sia costretta a scegliere tra il caos da una parte e il ritorno all’autoritarismo dall’altra. E mentre il Paese e la comunità internazionale cercano una difficile quadratura per il processo di pace, i migranti in Libia continueranno a vivere il loro inferno quotidiano, mentre i governi europei, in primis quello italiano, continueranno a voltare lo sguardo dall’altra parte, noncuranti e complici.

[1] Desperate and Dangerous: Report on the human rights situation of migrants and refugees in Libya, OHCHR, UNSMIL, 18 December 2018.

[2] Ivi, p. 10.

[3] F. Wehrey,  J. Harchaoui, Is Libya Finally Ready for Peace? The Palermo Summit and the Case for Optimism, in Foreign Affairs, 30 November 2018, in www.foreignaffairs.com/articles/libya/2018-11-30/libya-finally-ready-peace.

[4] S. Zaptia, Palermo Libya conference makes no major breakthrough, postpones elections, reaffirms LPA and Action Plan, in Libya Herald, 14/11/2018, in www.libyaherald.com/2018/11/14/palermo-libya-conference-makes-no-major-breakthrough-postpones-elections-reaffirms-lpa-and-action-plan.

[5] Palermo Conference For and With Libya (12/13 November 2018), Conclusions, in www.governo.it/sites/governo.it/files/conference_for_libia_conclusions_0.pdf.

[6] Ibidem.

[7] W. Lacher, A. al-Idrissi, Capital Of Militias: Tripoli’s Armed Groups Capture the Libyan State, Small Arms Survey, Briefing Paper, June 2018, p. 10-13.

[8] Ibidem.

[9] Libyan Political Agreement, as signed on 17 December 2015, article 12.

[10] A Quick Guide to Libya’s Main Player, European Council on Foreign Relations, in www.ecfr.eu/mena/mapping_libya_conflict.

[11] Ibidem. Vedi anche C. Sbailò, Libia. La posta in gioco. Un compromesso costituzionale su un bicefalismo dell’esecutivo di tipo tunisimo, in www.federalismi.it, 14 novembre 2018.

[12] F. Wehrey, J. Harchaoui, Is Libya Finally Ready for Peace? cit.

[13] Per maggiori informazioni sulla contro rivoluzione egiziana, si veda tra gli altri T. al-Khatib, Egypt’s Counter-Revolution Has Put The Nation In Peril, in Middle East Eye, 3 July 2018, in https://www.middleeasteye.net/columns/how-egypt-s-counter-revolution-lives-2124027076.

[14] Non sarebbe la prima volta che la comunità internazionale fa pressioni per raggiungere risultati prestabiliti a discapito di un processo inclusivo, si veda l’esempio di Timor Est e della Cambogia, M. Brandt, Constitutional Assistance in Post-Conflict Countries: The UN Experience: Cambodia, East Timor & Afghanistan, UNDP, June 2005.


[1] Cooperante, laureato in Human Rights and Conflict Management alla Scuola di Studi Avanzati Sant’Anna a Pisa. Visiting researcher allo Hermon Center for Contemporary Studies. “

Questa voce è stata pubblicata in Cronache costituzionali, LIBIA, MEDIO ORIENTE. Contrassegna il permalink.