LO SPORTSWASHING IN AFRICA CENTRALE: TRA STORIA E NUOVE PROSPETTIVE
Source: Opening of FIA General Assemblies | Kigali, 13 December 2024 © Paul Kagame, Flickr
di Giacomo Capicciotti[1]
Il 13 dicembre 2024, durante l’Assemblea Generale della Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA) tenutasi a Kigali, il presidente del Ruanda Paul Kagame ha ufficializzato la candidatura del paese da lui guidato ad accogliere un Gran Premio del mondiale di Formula 1. Questo annuncio ha riscosso grande interesse negli appassionati in quanto rappresenta un importante passo verso la conquista dell’ultimo continente che manca nel calendario della competizione: l’Africa, infatti, non ospita una tappa della stagione da più di 30 anni, con l’ultimo Gran Premio corso in Sudafrica nel 1993. Per tale ragione se la collaborazione tra la FIA e il Ruanda diventasse realtà, si avrebbe una svolta storica per il campionato.
Questo è, però, solo il più recente episodio di una tendenza molto più duratura. Dall’analisi di alcune precedenti decisioni politiche di Kagame, infatti, emerge chiaramente un pattern ben definito: il presidente del Ruanda è solito utilizzare lo sport come contesto in cui effettuare importanti operazioni economiche (e politiche) formalmente volte a dare lustro al paese a livello internazionale. Nel dettaglio, la recente storia mostra chiaramente come, seppur Kagame non disdegni nessuna competizione che gli permetta di raggiungere i propri obiettivi, egli preferisca il calcio. Il forte interesse di Kagame per questo sport non è dettato solamente dai suoi scopi politici, ma è in primis una passione privata: da sempre amante del gioco, segue con particolare ardore la Premier League, il massimo campionato inglese, essendo uno sfegatato tifoso dell’Arsenal a cui spesso dedica emotivi post sui social (“Maaan….that is the #Gunners we love….!!!” dal profilo X di Paul Kagame il 24/04/2024 dopo la vittoria dell’Arsenal sul Chelsea per 5-0). A partire dal 2018, questa passione per i Gunners è uscita dal solo ambito privato e si è riversata anche in politica con l’ufficializzazione di una partnership tra il Ruanda e la squadra inglese, come confermato dal sito web di quest’ultima: “The Rwanda Development Board, through their subsidiary, the Rwanda Convention Bureau, has become our first official sleeve partner”. Questa collaborazione, ancora in essere a seguito del rinnovo dopo i primi 3 anni, prevede la presentazione del logo Visit Rwanda sulla manica sinistra della divisa del club in cambio di un esoso pagamento da parte del paese africano (£10 milioni all’anno). Un’operazione simile è stata realizzata con la squadra francese del Paris Saint-Germain: se il logo Visit Rwanda è oggi sparito dalla divisa del club parigino, esso è ancora in vista dietro le reti del Parc des Princes, lo stadio dove la squadra militante nella Ligue 1, massima serie francese, gioca le sue partite casalinghe. Entrambe queste collaborazioni calcistiche sono andate oltre la semplice apposizione del logo in punti strategici, includendo anche sessioni di allenamento a Kigali per alcuni ragazzi ruandesi gestite dallo staff delle due squadre, un safari (ampiamente documentato e pubblicizzato) di alcuni giocatori del PSG in Ruanda e ulteriori eventi folkloristici quali la cerimonia di battesimo di un gorilla. Oltre al calcio, un altro sport nel quale Kagame ha investito è la pallacanestro. Il Ruanda, infatti, ha ospitato i playoff e le finali di tutte le quattro edizioni del Basketball Africa League (BAL), il campionato di pallacanestro africano organizzato dalla National Basketball Association (NBA), che si sono svolte finora. Ovviamente Visit Rwanda era tra gli sponsor del torneo ed era in bella mostra sulle divise delle varie squadre partecipanti e in diversi punti strategici della BK ARENA di Kigali dove si sono giocate le partite.
Ma tutte queste operazioni possono essere davvero descritte solamente come operazioni di marketing volte a pubblicizzare il paese e a elevarlo a meta turistica estremamente attrattiva agli occhi del resto del mondo (soprattutto degli spettatori occidentali)? Alcuni studiosi hanno, in opposizione a questa narrazione offerta dal governo di Kagame e da tutti gli altri attori coinvolti, iniziato a etichettare questa centralità dello sport nelle operazioni internazionali del Ruanda come “sportswashing”. Questo neologismo, ora anche all’interno del Cambridge Dictionary, è utilizzato per descrivere “la pratica di un’organizzazione, un governo, uno stato, etc. di supportare uno sport o di organizzare eventi sportivi come modo per migliorare la propria situazione”. In altri termini, lo sportswashing, in questo caso riferito all’azione del presidente eletto di un paese, consiste nell’utilizzare lo sport per coprire o, meglio, distogliere lo sguardo della comunità internazionale dalle violazioni che egli commette. Allo stesso tempo, però, la pratica di sportswashing permette davvero al suddetto paese (e al suo leader) di farsi una pubblicità positiva e riconoscere come attore rilevante sullo scacchiere internazionale.
Seppur la pratica dello sportswashing sia molto antica (gli studiosi riconoscono episodi di tale fenomeno anche durante l’epoca dell’antica Grecia), la comunità scientifica ha iniziato ad analizzarla davvero solamente nel XXI secolo. Di particolare rilevanza, inoltre, è il fatto che la maggior parte degli studi più recenti sul fenomeno si concentri sui paesi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis, specialmente dopo i recenti mega-eventi quali la coppa del mondo di calcio maschile del 2022), mettendo da parte un’indagine tanto interessante quanto necessaria di altri contesti del mondo, quali proprio il Ruanda. Se, infatti, molti giornali associano la politica di Kagame alla pratica dello sportswashing, gli articoli scientifici sulla questione specifica si contano sulle dita di una mano. Eppure, da un punto di vista storico, l’Africa centrale non è nuova a questo fenomeno. L’esempio più lampante e preciso è sicuramente quello dell’autoritario leader zaïrese Mobutu Sese Seko che guidò quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo dal 1965 al 1997. In generale, durante tutta la durata del suo incarico da presidente egli intese e utilizzò lo sport come un’importante arma propagandistica grazie alla quale donare un ruolo di primo piano al suo neonato paese, indipendente dal giugno del 1960, e, a partire dai primi anni ’70, pubblicizzare il suo personale rivoluzionario progetto di ritorno alla tradizione precoloniale nascondendone, allo stesso tempo, i lati oscuri. Tali obiettivi vennero perseguiti, ad esempio, durante i mondiali di calcio maschile dell’estate del 1974 ai quali la squadra dello Zaïre riuscì a qualificarsi diventando la prima nazionale dell’Africa subsahariana a conseguire tale risultato. Mobutu riteneva la partecipazione a questa competizione fondamentale per far fare una bella figura al suo paese e, soprattutto, a sé stesso e al suo entourage: per questo non poté sopportare la serie di umilianti sconfitte che la spedizione zaïrese collezionò durante il girone di qualificazione contro Scozia, Jugoslavia e Brasile e che risultò nella sua conseguente eliminazione dal torneo. Prima dell’inizio della competizione, il presidente aveva promesso gloria e laute ricompense economiche ai suoi giocatori in caso di conseguimento di buoni risultati, ma il fallimento sportivo nel quale risultarono le prime partite costrinse Mobutu a passare alle minacce. Sicuramente, però, la più importante dimostrazione di utilizzo strumentale dello sport nello Zaïre del generale Mobutu fu il combattimento di pugilato passato alla storia con il nome di “The Rumble in the Jungle”: una sfida che ebbe luogo il 30 ottobre 1974 e che vide i due pesi massimi Muhammad Ali e George Foreman affrontarsi per il titolo mondiale. Questo match fu concepito da Mobutu come parte di un più ampio mega-evento culturale (Zaïre ‘74) durante il quale numerosi artisti zaïresi e afroamericani suonarono canzoni di musica “africana” con lo scopo di rivendicarne il valore e la bellezza. In quegli anni, infatti, il presidente zaïrese stava iniziando a presentare al mondo il suo tanto innovativo quanto ambiguo progetto di zaïrizzazione basato proprio su principi di valorizzazione dell’identità precoloniale. L’incontro pugilistico perseguiva gli stessi obiettivi grazie soprattutto alla presenza di Muhammad Ali, il quale si era sempre schierato a favore dei più deboli; le sue posizioni controcorrente, che egli rivendicava a gran voce e che gli valsero anche un lungo periodo di squalifica, lo avevano reso un paladino dei diritti dei più vulnerabili. Fu in particolare la sua decisione di schierarsi in difesa della comunità afroamericana che lo rese il testimonial perfetto per il progetto di Mobutu, il quale non si fece scappare l’opportunità di averlo a combattere nel proprio paese.
Anche allontanandosi da una semplice classificazione in termini geografici, l’incontro che ebbe luogo a Kinshasa presenta molte somiglianze con i progetti implementati dall’attuale leader del Ruanda. Una fondamentale similitudine riguarda sicuramente gli obiettivi di tali scelte: lo sportswashing, infatti, nasce sempre da una volontà di ripulire l’immagine internazionale di un paese o di un capo di stato dalle accuse che gli vengono rivolte e di promuoverne l’operato. Per quanto riguarda il progetto del leader zaïrese, l’incontro aveva lo scopo di presentare al mondo il nuovo paese frutto della politica di ritorno alla tradizione: questa sua creazione necessitava di un riconoscimento e di sostegno internazionale che potevano essere ottenuti proprio grazie al combattimento. Allo stesso tempo, il cleptocratico Zaïre di Mobutu era caratterizzato da una capillare corruzione e appropriazione di fondi pubblici e da un forte culto della personalità del capo di stato e di quella dei suoi familiari. Per raggiungere questi obiettivi, grandi investimenti di fondi pubblici in operazioni di marketing e di pubblicità divennero consuetudine nel paese e risultarono in una strettissima e malsana alleanza tra l’élite zaïrese e i paesi occidentali che continuarono fino alla fine a chiudere un occhio per non perdere un fondamentale baluardo antisovietico durante la Guerra Fredda, permettendo a Mobutu di rafforzare, ma allo stesso tempo nascondere, il suo autoritarismo. L’odierno Ruanda, allo stesso modo, dona enorme importanza alla propria immagine e a quella del suo presidente e utilizza diverse strategie, tra le quali appunto l’organizzazione di eventi sportivi e l’investimento di fondi nello sport, per mantenerle intonse e dare loro una posizione di rilievo. Le accuse principali che alcuni giornalisti (solo i più critici) e ONG occidentali muovono a Kagame sono sicuramente due: in politica interna si lamenta spesso a Kagame di non lasciare spazio agli oppositori politici (anche tramite violenze e catture arbitrarie) e di aver messo in piedi una dittatura, seppur ancora nascosta dietro il velo delle libere elezioni (Kagame ha ottenuto il 99% dei voti alle ultime elezioni generali tenutesi a luglio 2024), mentre in politica estera molti commentatori internazionali e, soprattutto, il governo della Repubblica Democratica del Congo attribuiscono a Kigali un ruolo chiave nelle lotte che ancora oggi interessano la provincia del Kivu, esercitato tramite il controllo di importanti milizie anti-governative (quali il M23). Nonostante ciò, l’immagine internazionale di Kagame e la posizione internazionale del Ruanda si sono rafforzate negli anni, facendo leva sull’aumento generale della ricchezza nel paese (seppur con importanti differenze interne), ma anche sul senso di colpa occidentale derivato dal genocidio ruandese del 1994, in seguito al quale Kagame ha iniziato la sua salita al potere. Allo stesso tempo, come per lo Zaïre degli anni ’70, i paesi e le organizzazioni occidentali, quali la FIA, hanno enormi interessi nell’accettare questo crescente coinvolgimento del Ruanda nelle proprie competizioni sportive: oltre agli enormi guadagni in termini di capitale economico, essi riescono così a mantenere una essenziale presa sul continente sfruttando l’aiuto di quei pochi leader che, in un momento storico caratterizzato da forti ostilità verso il controllo ancora esercitato dagli ex-colonizzatori in vari paesi africani, continuano ad apprezzare la vicinanza e l’interesse occidentale.
Entrambi gli esempi mostrano come lo sportswashing non possa funzionare senza un coinvolgimento attivo di tutta la comunità internazionale. Questo aspetto della questione viene spesso ignorato anche dalle poche voci critiche che trattano di queste pratiche: dello sportswashing non si considera mai la natura bidirezionale. In altre parole, ci si limita a presentare questi eventi o investimenti sportivi come furbi progetti grazie ai quali non democratici leader riescono a mantenere in moto la loro dittatoriale macchina politica senza, però, riconoscere come questo sia consentito loro dal tacito consenso del resto della comunità internazionale, o, più precisamente, di quella parte di essa che, data l’attuale struttura e funzionamento della politica internazionale, davvero conta. Va da sé che entrambe le parti intraprendono questa connivenza politico-sportiva per puro ed egoistico utilitarismo: se da una parte i leader, quali Kagame, che mettono in piedi questi progetti ottengono da essi enormi benefici, dall’altra i paesi occidentali non accettano che si pratichi lo sportswashing se questo non implica un loro aumento di capitale, sia economico che politico.
Come concepire quindi lo sportswashing? Prospettive alternative che si oppongano alla tradizionale visione (neo)coloniale sembrano necessarie.
FONTI
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[1] Dottore in Mediazione linguistica e culturale e studente di Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Milano.