La Costituzione ungherese: un modello per le riforme italiane?

di Antonio Leo Tarasco[1]

Nonostante le ingenerose critiche, credo che buona parte della Costituzione ungherese contenga norme e valori che l’Italia ha bisogno di recuperare: la stabilità di governo, la riduzione degli organi di decisione politica e la definizione di una comune identità di valori, di matrice essenzialmente laica. Questi appaiono alcuni dei più importanti fattori senza i quali si avranno difficilmente apprezzabili miglioramenti nella società italiana; per introdurre tali elementi, è indispensabile modificare anche la nostra Costituzione.

Cominciamo con il Credo nazionale[1] costituzionalizzato nella Legge fondamentale ungherese (Magyarország Alaptörvénye) del 25 Aprile 2011[2].

Anche se molto lungo, e forse mancante della necessaria sintesi richiesta alle Costituzioni, è interessante scoprire, però, ch’esso ha molto da insegnare, contenendo principi e valori assolutamente moderni, sconosciuti al ridotto catalogo contenuto nella Carta fondamentale italiana, quantomeno in forma esplicita; essi contribuiscono a rendere la Legge ungherese una Costituzione moderna nel suo essere proiettata verso il futuro partendo da uno slancio vitale che al legislatore italiano, espressione fedele della società italiana, fa decisamente difetto.

La condivisione di una base di valori e la percezione di una ottimistica tensione verso il futuro furono invece ingredienti determinanti nella nostra codificazione costituzionale del 1947; mancando questi, invece, ogni tentativo di riforma costituzionale si riduce al livello di tecnica giuridica ed accordo partitico legato al variabile interesse dei protagonisti del momento e non ancorato, invece, all’idea della vita e della società che l’ordinamento intende disciplinare e governare. Non è un caso che la stagione costituente inaugurata in Italia con la presentazione del Disegno di legge costituzionale A.S. 1429[3] concerna unicamente la Parte II della Costituzione ed escluda pure la sezione relativa alla “Magistratura”, nonostante siano evidenti le esigenze di ammodernamento anche di tali parti.

Ripiegati sul contingente e mancando una comune visione della vita associata e dei valori cui essa dovrebbe ispirarsi, appare in Italia impossibile fissare nella Costituzione, come pur gli ungheresi del Governo post comunista hanno fatto, principi quali il riconoscimento del diritto alla vita, fin “dall’istante del concepimento” (art. II), del valore degli anziani (art. XVI, co. 4) e dei propri genitori “quando questi ne abbiano bisogno” (art. XVI, co. 4), dei disabili (art. XV, co. 5), il riconoscimento, la protezione e l’incentivo a formare una famiglia (art. L), il divieto espresso dell’eugenetica e della clonazione umana (art. III).

Si tratta di punti basilari sui cui credo si possa convenire laicamente (trattandosi di tutelare la vita e la persona umana dal suo inizio ed in tutte le sue forme, indipendentemente da valutazioni metafisiche e trascendentali) e su cui appare opportuno ammodernare la nostra Carta, anche al fine di non offrire il destro ai giudici costituzionali, nell’ampiezza di molte formulazioni costituzionali, per la libera interpretabilità della Costituzione secondo il proprio personale assioma valoriale che tradisce, spesso, il tentativo di imporre una determinata visione politica di alcuni fenomeni giuridici e sociali, peraltro senza specifica legittimazione democratica[4]; in questo senso, non giudico particolarmente disinteressate ed indipendenti le critiche mosse alla Costituzione ungherese nel noto Progetto di relazione sulla situazione dei diritti fondamentali: norme e pratiche in Ungheria redatto dalla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (c.d. Rapporto Tavares, dal nome del parlamentare dei Verdi che ne è stato relatore) del 2 Maggio 2013, poi sostanzialmente trasfuso nella definitiva Relazione del Parlamento europeo del 24 Giugno 2013: oltre a rappresentare un tentativo di indebita pressione sull’autonoma determinazione di uno Stato sovrano, molte delle critiche lì contenute appaiono frutto di una diversa visione politica della realtà sociale e dei rapporti di potere rispetto a quanto deliberato dal Governo di Viktor Orbàn e tradiscono un segreto auspicio di omologazione costituzionale dei Paesi dell’Unione europea sotto un’egida che si autoproclama “democratica”.

Il Governo di Orbàn, forte di una larga maggioranza politica (che, in termini autenticamente democratici, significa legittimazione politico-popolare), ha avuto la forza di proporre una visione della società profondamente antitetica rispetto a quella propugnata per oltre un cinquantennio dal regime comunista[5]; ed è curioso che proprio dopo l’affermazione di un regime democratico di segno opposto rispetto a quello illiberale che ha dominato per decenni, si sollevino critiche verso un Governo che, in quanto differente rispetto a quello passato, viene ritenuto “autoritario”. Sul piano del metodo, infatti, a voler seguire la logica del c.d. Rapporto Tavares, anche la Costituzione italiana del 1947 avrebbe dovuto mantenere una continuità con il regime fascista per non essere chiamata antidemocratica (sic!).

Della ingenerosità delle critiche formulate si può avere conferma leggendo, senza pregiudizi, la Legge fondamentale ungherese del 2011, che riconosce, ad esempio, l’esistenza umana come basata sulla dignità (Credo nazionale, 11° proposizione), il dovere di aiutare il debole e il povero (Credo nazionale, 15° proposizione), la protezione della vita umana fin dal suo concepimento, anche nelle forme del feto e dell’embrione (art. II) e nonostante la vigenza della legge sull’aborto (che dunque parre porsi in potenziale conflitto costituzionale con il nuovo principio), il principio di solidarietà intergenerazionale in un senso bidirezionale (art. XVI) a completamento del dovere verso le generazioni future di impiego prudente delle risorse materiali, intellettuali e naturali (Credo nazionale, 8° proposizione), laddove in Italia ci si limita a discutere – de jure condendo – unicamente di quest’ultimo profilo solidaristico.

È pur vero che la nostra Costituzione non è restia a riconoscere “diritti inviolabili dell’uomo” e “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.), ma è pur vero che proprio l’ampiezza di talune categorie giuridiche presta il fianco ad interpretazioni della Carta costituzionale tendenti ad intravedere nel testo non un Credo collettivo (come quello condiviso dagli Ungheresi) ma solo la proprio personale visione del mondo.

L’opera attualizzatrice della giurisprudenza, foriera di risultati spesso oscillanti e non sempre coerenti (si pensi, pure, alla vicenda giurisprudenziale dell’inseminazione artificiale eterologa[6]), è emblematicamente confermata nel segmento del diritto amministrativo anche dalla vicenda della risarcibilità degli interessi legittimi, per un cinquantennio ritenuti irrisarcibili salvo, poi, nel 1999, assistere ad un cambiamento epocale di rotta da parte dei giudici della Corte di Cassazione. La tendenza del legislatore italiano a delegare all’attività interpretativa dei giudici il compito di concretizzazione di principi e valori costituzionali stride notevolmente rispetto alla scelta di campo del Costituente ungherese che, invece, proprio riguardo al tema della risarcibilità delle posizioni giuridiche lese dall’azione dei poteri pubblici, ha deciso (senza ad altri affidare il compito di decidere l’an) di riconoscere “il diritto all’indennizzo statale (…) per ogni danno ingiusto che il pubblico potere, nell’adempimento dei propri compiti, abbia causato (…)” (art. XXIV, secondo comma). Indipendentemente dalla condivisibilità e variabilità storica delle decisioni assunte, il modus operandi del Costituente ungherese appare degno d’essere seguito mostrando, in tal modo, il decisore politico di assumersi chiare responsabilità in relazione a soluzioni di problemi sociali e giuridici contestabili unicamente con i meccanismi democratici (accountability), a differenza delle variabili decisioni giudiziarie soggette solo ai rimedi giurisdizionali e che sfuggono, per ciò stesso, a forme di responsabilità politiche.

Nel contempo, non possono sottacersi disposizioni costituzionali di dubbia condivisibilità se lette isolatamente, come ad esempio l’art. XXII, comma 3, secondo cui, al fine di tutelare l’ordine pubblico, la salute e la sicurezza pubbliche e i valori culturali, un atto legislativo del parlamento o un’ordinanza locale possano dichiarare illegale la permanenza in un’area pubblica considerata come fissa dimora, in relazione a una determinata parte dell’area pubblica stessa[7].

Se la disposizione dell’art. XXII può, prima facie, suonare dura rispetto alla nostra coscienza giuridica e morale, il merito della disposizione sta nel fatto di operare una scelta, qualunque sia, rispetto al problema dei senzatetto i quali, in molte parti dell’occidente sviluppato, vengono abbandonati completamente per strada, e spesso lasciati morire con ipocrita deresponsabilizzazione sociale e istituzionale. La disposizione, per quanto censurabile per la sua drasticità, ha almeno il merito di affrontare il problema del bilanciamento tra esigenze di sicurezza pubblica e quelle di solidarietà e sostegno dei più deboli verso i quali, pure, la Legge fondamentale ungherese dichiara d’essere sensibile, ponendo il “dovere di aiutare il debole e il povero” (Credo nazionale, 15° proposizione).

Inoltre, non può trascurarsi che quella disposizione costituzionale va letta unitamente ad altre disposizioni costituzionali che evidenziano aspetti più luminosi dell’ordinamento costituzionale ungherese rappresentati dall’elevato livello di tolleranza ed accoglienza che la comunità magiara ha sancito con la legge fondamentale: si pensi al riconoscimento del diritto alla casa per tutti (art. VI), al diritto di voto per gli stranieri (limitatamente ai consessi locali: art. XXIII, comma 3), al diritto all’obbiezione di coscienza (XXXI, comma 3).

Proseguendo nell’esame della Magyarország Alaptörvénye, altra disposizione molto interessante ed innovativa rispetto alla nostra tradizione giuridica è pure l’art. XXVI che sancisce l’obbligo per lo Stato ungherese di ricorrere alle più moderne tecnologie: la disposizione, prevedendo non la mera facoltà ma addirittura un obbligo per gli apparati pubblici, lascia riflettere sull’arretratezza italiana intorno all’utilizzazione a fini di pubblica utilità delle moderne tecnologie: dai c.d. big data (che dispenserebbero i cittadini dalla produzione di documenti ed informazioni già in possesso della galassia di uffici pubblici) alla telemedicina (con tutti i risvolti pratici e solidaristici immaginabili in termini di accessibilità concreta delle cure mediche più avanzate in ogni parte del territorio italiano), al telelavoro (che risolverebbe gran parte dei problemi di mobilità dei dipendenti pubblici, del loro benessere organizzativo, di conciliazione dei tempi di casa e lavoro, di pari opportunità). Opportunità, queste, che potrebbero fuoriuscire dalla buona volontà degli amministratori pubblici se una previsione costituzionale in tal senso, analoga a quell’art. XXVI della Legge fondamentale ungherese, imponesse espressamente la preferenza per gli strumenti tecnologici rispetto a quelli tradizionali.

Anche sul fronte del patrimonio culturale, nonostante si annoveri l’art. 9 della Costituzione italiana tra i più moderni delle Carte costituzionali occidentali, non può obliterarsi ch’esso ha consentito al legislatore ordinario di eludere l’applicazione delle convenzioni internazionali Unesco del 2003 e del 2005, rispettivamente, sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e sulla protezione e promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi. Infatti, a causa dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. lgs. n. 42/2004, introdotto con il d. lgs. 26 marzo 2008, n. 62), “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalla Convenzione Unesco (…) sono assoggettabili alle disposizioni del presente Codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali (…)”: sottoscritte e ratificate quelle convenzioni internazionali stipulate in sede Unesco, l’ampiezza dell’art. 9 Costituzione italiana ha permesso di contraddire le finalità principali delle Convenzioni Unesco del 2003 e 2005 che, invece, proprio le testimonianze immateriali intendono salvaguardare e promuovere, prima della loro irrimediabile distruzione.

Diversamente, nella Costituzione ungherese si parla significativamente di patrimonio culturale inteso nel senso francese di heritage, cioè di patrimonio comune di ogni eredità culturale del popolo magiaro (art. P), indipendentemente dalla fisionomia concreta di tale eredità: oltre a tutelare, tra i principi fondamentali, il patrimonio culturale insieme alla biodiversità (art. P), la Legge fondamentale, all’interno del Credo nazionale, pone significativamente l’impegno a “promuovere e salvaguardare la nostra eredità, la nostra lingua antica, la cultura ungherese, le lingue e le minoranze etniche che vivono in Ungheria, assieme all’intero patrimonio naturale e artificiale del Bacino Carpatico” (nona proposizione del Credo). A partire da tale orgoglio per la cultura nazionale (decima proposizione del Credo) e per le “eccezionali conquiste intellettuali del popolo ungherese” (quarta proposizione del Credo), la Costituzione del 2011 pone un preciso impegno verso “la misura più elevata possibile di benessere, sicurezza, ordine, giustizia e libertà” (quindicesima proposizione del Credo).

Quel che colpisce dalla lettura della Legge fondamentale è, come anticipato, l’atteggiamento proattivo e fiducioso del Costituente, la voglia di costruire un futuro luminoso ed una società basata sulla libertà e solidarietà tra gli uomini: il Credo ungherese (proposizioni 23-26) ripone “fiducia in un futuro condiviso e nell’impegno delle giovani generazioni” nei confronti dei quali si nutre fiducia nella loro capacità di rendere l’Ungheria “di nuovo grande con il loro talento, la costanza e la forza morale”. Il Credo introduttivo della Costituzione appare un’autentica preghiera collettiva in cui, grazie alla guida giuridica e spirituale del Costituente ungherese, gli oranti (tutti i cittadini ungheresi) sono chiamati a “fondare l’ordine del (…) Paese sugli sforzi comuni della Nazione”.

Questo slancio positivo, costruttivo e corale, parte “dalla Rivoluzione del 1956” (21° proposizione) e dell’esplicita premessa del rifiuto delle “dittature socialiste e comuniste” (19° proposizione), della “Costituzione comunista del 1949 (…) in quanto base per un ordinamento tirannico” (20° proposizione).

L’energia ed il dinamismo creativo della società magiara che traspaiono dalle proposizioni costituzionali testé vedute appaiono stridere notevolmente con il conservatorismo improduttivo della società contemporanea italiana, riconducibile – secondo qualche studioso – al fatto di essere una società Ve.R.DE. (VEcchia, Ricca e DEnsamente popolata), cioè improduttiva a causa della situazione di diffuso benessere, dall’anzianità demografica e dalla alta concentrazione demografica[8].

 

È su questo sfondo di valori e sentimenti comuni individuati dal Costituente come costitutivi del nuovo ordine giuridico della società post-comunista ungherese che devono essere lette anche quelle disposizioni su cui si sono concentrate le critiche mosse dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia)[9] e dal Parlamento europeo nella Relazione del giugno 2013[10].

Tra i punti più importanti stigmatizzati dal Parlamento europeo di sicuro rilievo è quello concernente le “limitazioni al potere della Corte costituzionale in materia di controllo della costituzionalità di tutte le modifiche della Legge fondamentale nonché l’abolizione di due decenni di giurisprudenza costituzionale”.

In questa sede non si ha lo spazio necessario per esaminare dettagliatamente le funzioni ed i poteri della Corte costituzionale ungherese quali risultano essere stati ridisegnati con la Legge fondamentale ungherese del 2011 ed i successivi emendamenti[11]. Nondimeno, non si può fare a meno di notare come l’Ungheria sia riuscita a rafforzare notevolmente il ruolo politico del Parlamento quale organo detentore della sovranità popolare; ciò che in Italia si tenta di fare senza particolari successi.

Sia consentito unicamente osservare che la decisione del Governo ungherese di limitare il controllo di costituzionalità in modo da affermare il primato della decisione politico-legislativa costituisce un elemento che contribuisce alla stabilità del sistema istituzionale, demandando progressivamente il controllo ultimo al livello democratico-elettorale. Attribuire, invece, come pur proposto dalla Relazione del Parlamento europeo del 2013, alla Corte costituzionale il diritto “di riesaminare tutta la legislazione, senza eccezioni, al fine di controbilanciare le azioni legislative ed esecutive” e ritenere che la stessa Corte “non dovrebbe essere oggetto di misure volte a ridimensionarne le competenze e quindi in grado di compromettere lo Stato di diritto[12] non significa necessariamente rendere un buon servizio alla stabilità dell’azione di Governo e della democrazia rappresentativa.

Non a caso la scelta di istituire in Italia una Corte costituzionale composta da giudici non eletti dal corpo elettorale, neanche indirettamente (se non per un terzo solo), e con poteri cassatori sugli atti normativi approvati dall’autorità democratica costituisce una scelta che è stata espressamente rifiutata in altri ordinamenti e che, nel nostro stesso ordinamento che pur ha adottato quell’organo, ha formato oggetto di un vivace dibattito all’interno dell’Assemblea costituente.

Certamente si può porre il problema di quale sia la scelta migliore tra una maggioranza di giudici costituzionali nominati dal Parlamento che rispondono, in varia misura, all’indirizzo politico della maggioranza e con poteri di controllo delle scelte legislative limitati (dalla stessa Legge fondamentale) in modo da attribuire maggiore stabilità alla decisione normativa adottata in sede politica ovvero se sia preferibile concepire una composizione dell’Alta Corte slegata, sì, da un potenziale indirizzo politico della maggioranza ma inevitabilmente condizionata dalle categorie valoriali dei singoli giudici e, quel che è peggio, schermata dietro l’apparente “purezza” della valutazione giuridica, talvolta solo autoreferenziale e refrattaria a qualsia forma di controllo di coloro che quella scelta politico-legislativo hanno posto in essere.

L’alternativa non presenta facili soluzioni teoriche in un senso o nell’altro, come dimostra il caso della sentenza della Corte costituzionale ungherese (n. 43/2012) che aveva annullato la normativa che introduceva una concezione ritenuta troppo ristretta di famiglia in quanto legata all’essenzialità della procreazione; quella sentenza è stata a sua volta neutralizzata mediante costituzionalizzazione nell’art. L del concetto di famiglia (“unione di un uomo e di una donna”) contenuto nella normativa antecedente alla decisione costituzionale[13]. Trattandosi chiaramente di scelte politiche e non di diritto naturale, si può forse concepire come non irragionevole che alla Corte costituzionale sia precluso di entrare nel merito della decisione legislativa per la cui valutazione non vi sono parametri giuridici certi se non a costo di forzate ed artificiose costruzioni giurisprudenziali che spesso occultano la personale visione politica del collegio giudicante[14].

Anche l’azzeramento della giurisprudenza costituzionale precedente rispetto all’entrata in vigore della Legge fondamentale ungherese mi sembra solo in apparenza scandalosa se si pensa che con la nuova Legge fondamentale[15], il Governo di Orbàn ha inteso dare un nuovo corso alla storia costituzionale ungherese, interrompendo ogni forma di continuità e contiguità rispetto alle “dittature socialiste e comuniste” espressamente ripudiate nel Credo (analogamente a quanto ha disposto la XII disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione); ed è intuitivo che in un regime dittatoriale ad essere negativamente influenzati sono non soltanto la legislazione ma anche gli organi magistratuali ed il prodotto della loro attività (cioè la giurisprudenza, inclusa quella costituzionale).

Più in generale, la scelta del Governo ungherese si inserisce nella tendenza alla riduzione dei codecisori politici che in Italia stenta a realizzarsi nonostante l’obiettiva esigenza che se ne avverte.

Proprio in Italia, il caso della sentenza costituzionale n. 199/2012 ha riproposto il problema della molteplicità dei livelli decisionali che, sovrapponendosi, anche impropriamente, rallentano o impediscono di realizzare le riforme di cui il nostro ordinamento necessita: la riforma dei servizi pubblici locali, auspicata dall’Unione europea[16], dalla Corte dei conti e, in modo bipartisan, dai precedenti Governi Berlusconi e Monti, culminata dapprima con l’approvazione dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 Giugno 2008, n. 112 e poi dell’art. 4, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, è naufragata in un primo tempo sotto i colpi del referendum del Giugno 2011, manipolato da slogan sapientemente fuorvianti (come “l’acqua è un bene comune”) e poi della predetta sentenza costituzionale del 2012 che si è posta contro la successiva decisione politico-parlamentare (d.l. 138/2011) che intendeva difendere proprio quella riforma dei servizi pubblici locali che avrebbe contribuito ad alleggerire la finanza pubblica ed innalzare il livello dei servizi erogati alla collettività.

Purtroppo così non è stato, semplicemente perché, a mio avviso, i giudici costituzionali hanno inteso svolgere, come non poche altre volte, il ruolo di codecisori politici che, invece, il Governo ungherese ha inteso con nettezza negare; ed è ciò che, tra l’altro, l’Unione europea le contesta[17].

Certamente quella decisione della nostra Corte costituzionale è degna d’apprezzamento nella parte in cui tenta di recuperare il valore della sovranità popolare (espressa nei referendum); dall’altro, però, si pone in significativa contrapposizione rispetto ad organi politici democraticamente legittimati, così ergendosi, la Corte, a non previsto organo politico in grado di limitare proprio la sovranità popolare in nome della cui difesa, in linea di principio, pur dichiara di agire: paradossi della società complessa e del sistema del bilanciamento dei poteri che, eppure, dovrebbero consentire ad un organo di assumere sia la decisione che la relativa responsabilità in base al principio democratico dell’accountability (giustamente) sconosciuto alle corti giudiziarie.

In conclusione, mi auguro che indipendentemente dalle soluzioni tecniche che potranno essere trovate nella stagione italiana di riforme costituzionali, si possa conquistare il coraggio di ritrovare l’unità e la forza per scrivere tutti insieme il nostro Credo di valori comuni e di assicurare una maggiore stabilità alle decisioni di governo nel rispetto del principio della sovranità popolare e del connesso controllo democratico.



[1] Per una lettura, si veda C. Dupré, Il “Credo nazionale” e i principi fondamentali: la dignità umana, in G. F. Ferrari, La nuova Legge fondamentale ungherese, Giappichelli, Torino, 2012, 13 ss.

[2] Come noto, la Legge fondamentale dell’Ungheria, adottata il 18 aprile 2011 dall’Assemblea nazionale della Repubblica ungherese, è entrata in vigore dal 1° gennaio 2012, previa pubblicazione sulla “Magyar Közlöny” proprio nel giorno di Lunedì di Pasqua, nell’evidente significato simbolico di rinascita rispetto agli anni bui del regime comunista, peraltro espressamente ripudiato anche nel Credo nazionale della stessa Legge.

La Costituzione magiara ha subito una prima modifica, presentata dal ministro dell’Economia nazionale il 17 aprile 2012 e adottata dal parlamento ungherese il 4 giugno 2012, che stabilisce che le disposizioni transitorie sono parte integrante della Legge fondamentale. Una seconda modifica della Legge fondamentale – presentata come progetto di legge a iniziativa personale il 18 settembre 2012 e adottata dal parlamento ungherese il 29 ottobre 2012 – introduce nella Legge fondamentale l’obbligo relativo alla registrazione degli elettori. La Terza modifica della Legge fondamentale, presentata il 7 dicembre 2012 e adottata dal parlamento ungherese il 21 dicembre 2012, stabilisce l’obbligo di definire i limiti e le condizioni per l’acquisizione di terreni agricoli e forestali nonché le norme che disciplinano l’organizzazione integrata della produzione agricola mediante leggi di rango superiore (le cosiddette “leggi cardinali”). La Quarta modifica della Legge fondamentale, presentata l’8 febbraio 2013 come progetto di legge a iniziativa personale e adottata dal parlamento ungherese l’11 marzo 2013, tra l’altro, integra nel testo della Legge fondamentale le disposizioni transitorie che la Corte costituzionale ungherese aveva annullato il 28 dicembre 2012 per motivi procedurali (decisione n. 45/2012), ad eccezione di quella che impone la registrazione degli elettori. Il Quinto emendamento è datato, invece, 26 Settembre 2013, ed integra, tra l’altro, le disposizioni costituzionali riguardanti la Corte costituzionale.

Una versione consolidata della Legge fondamentale ungherese aggiornata al Quinto emendamento è reperibile, in lingua inglese, in Z. Szente – F. Mandák – Z. Fejes (eds.), Challenges and pitfalls in the recent hungarian constitutional development. Discussing the New Fundamental Law of Hungary, Harmattan, Paris, 2015, in corso di pubblicazione.

[3] Recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione”.

[4] Sui tentativi – spesso, purtroppo, riusciti – della Corte costituzionale di invadere campi propri del legislatore imponendo con sentenze additive o interpretative particolari visioni della realtà giuridica e sociale, mi permetto di rinviare al mio “Sovranità popolare ed effetti delle sentenze costituzionali”, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, n. 3/2013, pag. 531-577, nonché in Giustizia Amministrativa. Rivista di diritto pubblico, 6 Febbraio 2014 (http://www.giustamm.it/private/new_2014/ART_4830.htm), in cui viene esaminata la sentenza della Corte costituzionale 20 luglio 2012, n. 199 in materia di poteri del Parlamenti di reintrodurre una normativa (quella normativa in materia di servizi pubblici locali) pur a seguito di un referendum popolare abrogativo.

[5] La Costituzione voluta dal regime comunista risale alla legge n. 20 del 1949 ed è rimasta in vigore fino al 1° Gennaio 2012, con l’entrata in vigore della nuova Costituzione.

[6] Su cui pure si registrano incursioni della Corte costituzionale che tenta d’imporre scelte politiche più che autenticamente interpretative di dati costituzionali: su questo modus procedendi, e per le sue pericolose applicazioni anche al settore dell’etica, sia permesso rinviare al mio Etica e diritto nella sentenza costituzionale sulla fecondazione eterologa, in Queste istituzioni, 30 aprile 2014 (www.questeistituzioni.it/fecondazione-artificiale-ruolo-paralegislativo-corte-costituzionale-ragioni-riforma-1787), a commento di C. cost. 10 Giugno 2014, n. 162.

[7] Sul punto, si veda criticamente, A. L. Pap, Who are “we, the people”? Biases and preferences in the Hungarian Fundamental Law, in Z. Szente – F. Mandák – Z. Fejes (eds.), Challenges and pitfalls in the recent hungarian constitutional development, cit., 53 ss., part. 64.

[8] F. Daveri, Crescere si può, Il Mulino, Bologna, 2012.

[9] Pareri n. CDL(2011)016, CDL(2011)001, CDL-AD(2012)001, CDL-AD(2012)009, CDL-AD(2012)020 e CDL-AD(2012)004.

[10] Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo, Relazione <Titre>sulla situazione dei diritti fondamentali: norme e pratiche in Ungheria (in applicazione della risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2012)</Titre> <DocRef>(2012/2130(INI)), del 24.6.2013, che riprende l’analogo Progetto di relazione del precedente 2 maggio 2013.</DocRef><TitreType></TitreType>

[11] Sull’argomento, si rinvia agli scritti di F. Gárdos-Orosz: Judicial Review of Constitutional Amendments the Hungarian Case in Context, e di N. Lupo, Constituent Power and Constitutional Revisions in Hungary the Excesses of Legal and Political Constitutionalism, entrambi in Z. Szente – F. Mandák – Z. Fejes (eds.), Challenges and pitfalls in the recent hungarian constitutional development, cit., rispettivamente 97 ss. e 112 ss.

Sul tema, ma in lingua italiana, si può anche vedere F. Vecchio, Teorie costituzionali alla prova: la nuova Costituzione ungherese come metafora della crisi del costituzionalismo europeo, Cedam, Padova, 2013.

[12] Parlamento europeo, Relazione <Titre>sulla situazione dei diritti fondamentali: norme e pratiche in Ungheria (in applicazione della risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2012), cit., p. 34.

[13] Art. L modificato dall’art. 1 del Quarto emendamento alla Legge fondamentale del 25 Marzo 2013.

[14] Come pur proposto, ad esempio, da A. L. Pap, Who are “we, the people”?, cit., p. 61.

[15] Simbolicamente approvata nel giorno del Lunedì di Pasqua del 2011.

[16] Si veda la lettera del 5 agosto 2011 della Banca centrale europea firmata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (pubblicata integralmente, in italiano, dal Corriere della sera del 29 settembre 2011) nella quale si posero all’attenzione del Governo Berlusconi allora in carica i temi dell’aumento della “concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali (…)”. In particolare, la Banca centrale europea chiedeva espressamente al Governo “una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”. Che è esattamente quanto è stato fatto nell’art. 4 del d.l. n. 138/2011 attraverso una limitazione dei diritti di esclusiva ai casi in cui “la libera iniziativa economica non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità” (art. 4, comma 1).

[17] Sia ancora consentito rinviare a A. L. Tarasco, Sovranità popolare ed effetti delle sentenze costituzionali, cit., 531 ss.



[1] Testo riveduto della relazione tenuta al Convegno su “Riflessioni sulle riforme costituzionali in Europa: il caso ungherese e il caso italiano”, svoltosi il 18 Novembre 2013 nella Pontificia università lateranense dello Stato della Città del Vaticano. Vi hanno partecipato, oltre a chi scrive, Patrick Valdrini, Pro Rettore della Pontificia Università Lateranense, Vincenzo Buonomo, Ordinario di diritto internazionale nella Pontificia Università Lateranense, Simon Mihaliy, avvocato del Foro di Budapest, Cinthia Pinotti, Vice Procuratore generale della Corte dei conti italiana.

È stato mantenuto il tono colloquiale dell’intervento, fatti salvi gli essenziali rinvii a pié di pagina.

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