di Esteban Camposi*
La vecchia tradizione della sinistra in cui, da Che Guevara a Ho Chi Minh, l’ondata rivoluzionaria del terzomondismo sembrava lambire le coste dei Paesi ricchi, con i leader del Sud globale sulle bandiere di protesta in Europa e Stati Uniti, si trova ora in una scomoda impasse. Il discorso del presidente argentino Javier Milei al forum di Davos del gennaio 2024 svolge un ruolo simile, facendo pressione sulle élite del Nord, ma con un segno ideologico opposto. Milei, che si definisce un liberale libertario e anarco-capitalista, difende il capitalismo come fase superiore della civiltà. Non è solo una scommessa su un “modello economico” basato sul business, ma moderato da una qualche mediazione politica o religiosa, capace di predicare l’azione riparatrice dello Stato, o di invocare la carità in mezzo alla guerra di tutti contro tutti. È la promozione non celata di un sistema che presuppone il lavoro alienato come parte della natura umana, esalta la ricerca egoistica del profitto come vocazione e ha l’ambizione totalitaria di conquistare tutte le sfere della vita che non sono ancora sottoposte al mercato. Che la diagnosi non sia esagerata lo dimostra il dibattito generato dalle sue dichiarazioni più controverse in campagna elettorale sulla vendita di organi e neonati o sulla privatizzazione di mari e oceani.
Questo totalitarismo del capitale non è nuovo. Si avverte nell’imposizione di criteri produttivistici di efficienza quantitativa all’istruzione e alla scienza, nell’espansione delle logiche consumistiche di uso e scarto compulsivo tipiche del supermercato alle relazioni affettive e sessuali, alle serie e ai film attraverso il capitalismo delle piattaforme. La novità è l’emergere di leader politici che, invece di racchiudere questi impulsi più aggressivi del capitalismo nel campo dell’economia, moderandoli per proteggere gli interessi dei capitalisti come classe (come fanno i partecipanti al forum di Davos), li spingono fanaticamente con un’ideologia pro-capitalista adatta al consumo popolare. Se a Davos, dove si discute di intelligenza artificiale e ambiente, gli avvertimenti di Milei sul pericolo del socialismo per l’Occidente sembrano un anacronismo, la diffusione del suo discorso – celebrato da plutocrati con manie di grandezza come Elon Musk – mira a smantellare su scala globale i resti dello Stato sociale e a colonizzare i settori più o meno protetti dalle dinamiche di mercato. In questo contesto, l’Argentina è un laboratorio per le politiche internazionali di alt-right, che con variazioni locali combinano autoritarismo politico, liberismo economico e conservatorismo culturale.
Nell’Argentina di Milei c’è molto liberismo economico, una discreta dose di autoritarismo politico e un certo conservatorismo culturale. Autoritarismo politico: come è stato simbolicamente dimostrato nella cerimonia di insediamento, con il presidente di fronte alla sua minoranza di sostenitori più convinti e con le spalle al Parlamento. Il governo della giovane coalizione La Libertad Avanza si sente investito di un mandato messianico per scavalcare le istituzioni della Repubblica e riformare il Paese dalle fondamenta, ignora le prerogative del Congresso e non ascolta il rumore sempre più forte del malcontento sociale. Questa vocazione autoritaria si scontra con la realtà di una minoranza parlamentare al potere e di una fragile élite di governo che dipende dall’alleanza con il centro-destra PRO, il partito dell’ex presidente Mauricio Macri e dell’attuale ministro della Sicurezza, Patricia Bullrich. Il risultato di questa debolezza di origine è che le iniziative del governo – il pacchetto di leggi noto come “Bases y Puntos de Partida para la Libertad de los Argentinos” e il Decreto di Necessità e Urgenza n. 70, anche noto come “Bases para la reconstrucción de la economia argentina”, redatto per deregolamentare le attività economiche, legiferare contro i lavoratori e chiudere o privatizzare le imprese statali – sono state o stanno per essere respinte dal potere legislativo e giudiziario. La strategia del presidente, che polarizza la società e crea costantemente antagonisti per logorare i suoi rivali e per preservare la sua immagine di politico anti-status-quo, rischia di farsi nemici insospettabili, come i governatori delle province colpite dal brutale aggiustamento fiscale del governo, molti dei quali appartenenti al centro-destra.
Il liberismo economico è la principale bandiera del governo di Milei: liberalizzazione dei prezzi, adeguamento della spesa pubblica con deficit zero come dogma di gestione e mandato del Fondo Monetario Internazionale, privatizzazione delle imprese pubbliche con l’orizzonte utopico di una società autoregolata dagli interessi privati, forte recessione e dollarizzazione dell’economia come formule per abbassare l’alta inflazione cronica, che fino al cambio di governo raggiungeva il 148% annuo. Prima di Milei, l’Argentina era un Paese con un’inflazione elevata ma controllata, con una disuguaglianza sociale moderata dall’intervento dello Stato, che aveva ampliato la spesa pubblica per sovvenzionare i trasporti, l’energia, il consumo popolare, la sanità e l’istruzione gratuite. Questo modello economico ha iniziato a indebolirsi dopo la crisi finanziaria globale del 2008. In quella congiuntura emerse il rumoroso malcontento delle classi medie, che organizzarono grandi mobilitazioni contro i governi peronisti, e il malcontento più silenzioso delle classi popolari, per le quali le politiche di redistribuzione del reddito non erano sufficienti, né aveva senso la retorica dei diritti sociali. Questo Stato in rovina, con ospedali e scuole stracolme, è il bersaglio del soggetto filocapitalista ed elettore di Milei, l’uomo d’affari che odia la classe politica perché lo tassa, ma anche l’umile operaio che sogna di mandare i propri figli in una scuola privata, perché il settore privato è percepito come superiore e di status più elevato rispetto al settore pubblico.
Gli indicatori sociali dei primi tre mesi di governo di Milei sono per il momento l’esatto contrario delle aspettative che più della metà dell’elettorato riponeva in quelle che il presidente chiama pomposamente “le idee di libertà”: secondo le statistiche prodotte dall’Università Cattolica Argentina, la povertà è balzata dal 44 al 57%, il che equivale a due milioni di nuovi poveri in soli due mesi di governo. I prezzi incontrollati dei beni di prima necessità, gli aumenti eccessivi dei servizi pubblici e privati e degli affitti delle abitazioni stanno generando uno spettacolare trasferimento di risorse dai più poveri ai più ricchi, che la retorica di Milei giustifica come misure necessarie per mettere ordine nell’economia del Paese e porre fine ai privilegi della “casta politica”. Ironia della sorte, se la promessa di Milei è quella di far assomigliare l’Argentina alla Svizzera o agli Stati Uniti per evitare che diventi “la più grande baraccopoli del mondo”, le misure del nuovo governo stanno portando il Paese a diventare come il Paraguay o il Perù, con bassa inflazione, alti tassi di povertà e uno Stato assente di dubbia qualità democratica.
Conservatorismo culturale: il rapporto di Milei con la destra tradizionale è equivoco, come dimostrano le sue prime dichiarazioni a favore dell’aborto e il suo cambiamento di opinione dopo l’alleanza con settori conservatori. Per il presidente, la “battaglia culturale” è fondamentale, ed è per questo che uno dei suoi ultimi interventi sui social network è stato quello di affermare, seguendo Antonio Gramsci, che “la radice del problema argentino non è politica e/o economica, ma morale”. Il dramma dell’Argentina sarebbe quello di aver seguito il modello gramsciano di implementazione del socialismo attraverso l’educazione, la cultura e i media, motivo per cui il presidente attacca personalità e politiche associate al progressismo. Anche la visione storica del nuovo governo, che relativizza i crimini dell’ultima dittatura militare e nega l’esistenza di 30.000 desaparecidos tra il 1976 e il 1983, è conservatrice.
Qual è il futuro del governo Milei? L’Argentina è diventata un esperimento per misurare quanto può durare una struttura sociale sottoposta a politiche di shock economico. Il presidente argentino vuole essere il Donald Trump del Cono Sud, ma potrebbe fare la fine di Pedro Castillo, il presidente di centro-sinistra che è stato estromesso in Perù dopo aver perso il sostegno del Parlamento. L’Argentina, un Paese con una lunga tradizione di proteste organizzate, negli ultimi anni non ha messo in scena alcuna ribellione di rilievo nella regione, come invece è accaduto in Cile, Colombia e Perù. La differenza è che mentre in questi Paesi il ciclo dei governi neoliberali si stava esaurendo, in Argentina è stato il centro-sinistra a entrare in crisi, con un’eccessiva dipendenza dall’azione dello Stato che ha anestetizzato i movimenti sociali e li ha lasciati senza un ricambio generazionale. Reinventare un movimento di resistenza per riconquistare i giovani sedotti dai discorsi della destra, ma soprattutto i settori più colpiti dalle politiche economiche, è la sfida che ci attende.
* Ricercatore presso l’Università di Buenos Aires-CONICET. La traduzione è a cura di Marco Morra. Testo inedito.