Una legge per chiudere i conti con uno scomodo passato i cui segni sono ancora più o meno visibili
di Cristiano Preiner
Sono in vigore ormai già da circa un mese le disposizioni di una legge, cosiddetta organica o anche cardinale (sarkalatos törvény) approvata lo scorso novembre, che fa espresso divieto a società, associazioni nonché media e organi di stampa di utilizzare nel proprio nome o ragione sociale ogni tipo di riferimento ad espressioni, organismi o persone che abbiano direttamente contribuito alla nascita, allo sviluppo e al mantenimento dei regimi dittatoriali del XX secolo. Gli interessati hanno tempo fino al 1 gennaio 2014 per adeguare eventuali situazioni di irregolarità. Destinatari delle citate disposizioni sono però anche le amministrazioni locali che hanno il dovere di applicare la legge nel caso delle nomenclature di istituzioni pubbliche e di luoghi pubblici ossia strade e piazze ancora non conformi alla norma. E’ in questo ultimo caso che la cittadinanza è toccata più direttamente. Basti pensare che nel solo caso di Lenin, sarebbero più di cinquanta le località sparse per l’Ungheria in cui luoghi pubblici portano ancora il nome del fondatore dello stato sovietico. Le misure provocheranno sicuramente disagi a tantissimi cittadini che si vedranno costretti a modificare oltre che indirizzo anche documenti personali e patenti di guida. Eventuali costi saranno a carico delle amministrazioni.
Inutile sottolineare che quando in Ungheria si parla di sistemi dittatoriali ci si riferisca al regime comunista così come pertanto non necessita particolari spiegazioni la facilità con cui la legge abbia ottenuto i numeri necessari alla sua approvazione, 268 voti favorevoli e 31 contrari, chiara espressione di un parlamento il cui 80% dei seggi è occupato da forze politiche di destra moderata e non. Il fatto poi che 24 dei 31 “no” venga da deputati dell’ MSZP (erede politico del comunista Partito socialista dei Lavoratori) non lascia dubbi sulla matrice politica della legge. I segni del passato sembrano ancora troppo ingombranti anche se solo relegati alle intestazioni di una piazza o di un parco. A 24 anni dalla caduta del muro di Berlino l’attualità politica di quei giorni, fatta della progressiva affermazione dei vincitori sui vinti, della sostituzione della liturgia e della simbologia comunista con le forme democratiche, sembra ritrovare ancora oggi spazio e motivazione. In realtà questa legge non fa altro che confermare uno degli elementi distintivi e fondativi del FIDESZ, attualmente partito di maggioranza assoluta con il 58,5% dei seggi, ossia l’anti-comunismo. L’Alleanza dei Giovani Democratici (il FIDESZ appunto) è stata infatti tra i protagonisti della mobilitazione e della transizione democratica di fine anni Ottanta e i giovani leader di allora occupano peraltro, proprio in questa legislatura, le tre più alte cariche dello stato: János Áder, Presidente della Repubblica, Viktor Orbán, Primo Ministro, László Kövér, Presidente dell’Assemblea Nazionale.
Le disposizioni della legge, per la parte relativa all’intitolazione dei luoghi pubblici, riguardano pressoché totalmente la provincia e i piccoli centri. Questa “democratizzazione” urbana a Budapest c’è stata già all’indomani del 1989 quando furono coinvolte ben 1200 tra strade, piazze e parchi, 400 dei quali riguadagnarono il nome posseduto prima dell’avvento del regime. Il più celebre rettifilo della capitale, i cosiddetti Campi Elisi ungheresi, che dalle spalle della Basilica di Santo Stefano percorre la città con il suo viale alberato per più di due chilometri fino alla maestosa Piazza degli Eroi, fu consacrato quasi subito al regime ed in particolare a Stalin di cui portò il nome dal 1949. Gli effetti della destalinizzazione si avvertirono anche qui. Infatti, dopo la breve parentesi della rivoluzione del ’56, anno in cui il celebre boulevard fu intitolato alla Gioventù Ungherese, il regime scelse un più neutro e asettico Via della Repubblica Popolare (Népköztársaság útja). Nel 1990 il rettifilo fu ribattezzato con il nome del 1885 ossia quello del conte Gyula Andrássy primo capo di governo ungherese del dopo Compromesso Austro-Ungarico del 1867 e ministro degli esteri dell’Impero. Trovò posto tra i palazzi di Budapest ogni riferimento al comunismo, dal Soviet (Tanács) all’Armata Rossa (Vörös Hadsereg) cui furono attribuite rispettivamente una circonvallazione (körút) e una strada. Lo stesso valse tanto per gli uomini, Marx, Engels,Lenin, tutti collocati in posti centralissimi della capitale, quanto per gli eventi storici: due piazze ricordavano la Liberazione (la Felszabadulás dal regime nazi-fascista ad opera dei sovietici) e il 7 novembre (data della rivoluzione russa). Per quanto breve fosse stata l’esperienza della Repubblica Sovietica Ungherese del 1919 non fu negata una piazza al suo realizzatore, Béla Kun. Anche l’Ambasciata d’Italia in Ungheria risiedeva in un viale assegnato al maresciallo russo Vorosilov prima di essere restituito a Stefania, moglie di Rodolfo d’Asburgo. Quelle modifiche furono accompagnate dalla rimozione fisica di statue e monumenti celebrativi del regime. Molte di esse finirono poco fuori Budapest nel Memento Park o Parco delle statue (Szobor park) dove oggi fanno bella mostra di sé come attrazione turistica per appassionati e nostalgici.
Il repulisti democratico post 1989 sembrerebbe completo ma basta allungarsi sul lungo Danubio e guardare verso il ponte Elisabetta per accorgersi che non è del tutto così. La statua della Libertà, uno dei monumenti più rappresentativi di Budapest e che domina tuttora la capitale dall’alto della collina Gellért è stato eretto dal regime. Questo monumento alto circa quaranta metri, e che rappresenta una donna con un ramo di palma tenuto in alto con le braccia distese, è stato dal 1947 il simbolo della liberazione dell’Ungheria dal nazi-fascismo ad opera dell’esercito sovietico. La democrazia non ha rimosso questo monumento “scomodo” forse anche per le leggende metropolitane più o meno fondate che hanno coinvolto in pieno il suo realizzatore, Zsigmund Kisfaludi Strobl, che avrebbe ideato la stessa statua (o forse una completamente diversa ma comunque da erigere nello stesso posto) in onore del figlio dell’ ammiraglio Horthy, morto tragicamente e in circostanze poco chiare a bordo del suo bombardiere sul fronte di guerra nel 1942. Resta il fatto che la statua ha celebrato per quasi mezzo secolo, per convinzione forse politicamente corretta dello stesso scultore, l’esercito liberatore sovietico venuto da sud-est che è proprio la direzione verso cui è rivolta la scultura. Unici ritocchi varati nel 1992 sono stati la rimozione di un elemento del gruppo statuario, ossia un soldato russo armato di fucile finito nel già citato Memento Park, la rimozione della stella sovietica e la riscrittura della frase ai piedi del monumento stesso: “In ricordo di tutti quelli che hanno sacrificato le proprie vite per l’indipendenza, la libertà e la felicità dell’Ungheria”.
Nessun ritocco invece, anzi anche una barriera di protezione dopo gli scontri di piazza del 2006, per il monumento agli eroi sovietici in Piazza della Libertà (Szabadság tér) che quasi inspiegabilmente ha resistito alle diverse ondate di rinnovamento urbano operato dalle giovani istituzioni democratiche (nei primi anni Novanta) e dai governi di destra (negli ultimi anni). Tutto sommato questo obelisco recante ancora i simboli sovietici – stella, falce, martello, spighe di grano – ha resistito anche in passato combattendo una singolarissima guerra fredda dal momento che sin dal 1946 occupa lo spazio antistante lo storico edificio che ospita, al civico numero 12 della piazza, l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America. Due anni fa si è poi aggiunta tanto per restare in tema anche una statua bronzea ad altezza e a misura d’uomo del presidente americano Reagan inaugurata alla presenza del Primo Ministro Orbán e dell’ex Segretario di Stato Condoleeza Rice proprio alle spalle del monumento. In poche decine di metri le due concezioni di libertà che si sono fronteggiate durante tutta la seconda metà del secolo scorso sembrano continuare ad opporsi ancora oggi in questa particolare lotta tra simboli in questo angolo di Budapest. Ad essere pessimista sulle sorti dell’obelisco è tuttavia lo storico, già ambasciatore russo in Ungheria, Valerij Muszatov che nel 2011 a margine di un convegno ebbe a sottolineare con rammarico come la sua permanenza in Piazza della Libertà fosse ancora in discussione. A conferma di ciò le parole del sindaco della capitale István Tarlós del Fidesz, manifestamente favorevole alla rimozione del monumento anche se consapevole che una scelta del genere richiederebbe accordi intergovernativi onde evitare inutili tensioni con la Russia.
In realtà si è andati vicinissimi alle tensioni menzionate quando l’Assemblea della Capitale approvò nell’aprile 2011 la modifica del nome di una piazza storica, la piazza Mosca (Moszkva Tér) da sempre snodo di fondamentale importanza nelle comunicazioni tranviarie e metropolitane tra Buda e Pest. La piazza ha riacquistato il nome che aveva dal 1929 ossia quello di Kálmán Széll politico, primo ministro e ministro delle finanze ungherese a cavallo dei secoli XIX e XX. La decisione dell’amministrazione Tarlós a suo tempo fu stigmatizzata dal Ministero degli Esteri russo come “incomprensibile, specie in una fase di pieno sviluppo delle relazioni russo-magiare”. Tuttavia il fatto che il commento ufficiale sia stato affidato allora solo al vice-portavoce del Ministero era indicativo della volontà russa di mantenere un ruolo meno che marginale nella vicenda così da scongiurare il rischio di incrinature nelle relazioni tra i due paesi. Certamente il peso delle resistenze alla modifica si è fatto sentire anche in città perché non si contano le generazioni che hanno per sessanta anni di fila conosciuto questa piazza come la Moszkva Tér. Ad opporsi e a manifestare contro la modifica sono stati ufficialmente i socialisti dell’MSZP e altri gruppi di sinistra a significare la natura ideologica di questa contrapposizione nonché la forte politicizzazione di una scelta quasi obbligata per una amministrazione di destra per la prima volta in assoluto alla guida di Budapest dopo venti anni di democrazia.
Tutti gli esempi sinora esposti fanno di Budapest uno dei tipici casi in cui la toponomastica funziona con la stessa logica dello spoils system: chi vince prende tutto, anche i nomi delle strade. Nel dopoguerra ci pensò il regime. Ora è il turno della democrazia ed in particolare della destra la cui forte caratterizzazione identitaria talvolta rende la ridefinizione dei nomi dei luoghi anche esageratamente marcata. In questi ultimi anni in nome dell’orgoglio nazionale hanno trovato una loro collocazione, oltre a vari letterati e artisti della storia recente come il pluridecorato attore Imre Sinkovits, il compositore Ferenc Liszt (per l’aeroporto), la gloria del calcio ungherese e mondiale Ferenc Puskás (per lo stadio) insieme ai più famosi calciatori della “Grande Ungheria”, la Aranycsapat degli anni Cinquanta. Anche il padre del rock, Elvis Presley, si è guadagnato un parco in riva al Danubio per aver perorato la causa dei rivoluzionari ungheresi del ’56.
Si sa che le città sono come dei libri di storia. Sui palazzi, sui monumenti e sulle strade se ne possono leggere le diverse pagine. Sta nell’equilibrio e nella responsabilità dei governanti il non sbiadire queste pagine ricordando anche al lettore che un libro ha più capitoli oltre a quello corrente. La storia di una nazione è ricca di contributi più o meno felici. La giustizia in passato ha fatto il suo corso pertanto la memoria non può che essere una ricchezza e non un crimine o una condanna postuma.
Cristiano Preiner è Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università degli studi di Napoli; è di madre lingua ungherese ed ha lavorato presso l’Ufficio Politico dell’Ambasciata d’Italia a Budapest. Attualmente lavora alla IBM.